La danza iterativa del corpo/voce. Isabelle Huppert alla Pergola di Firenze in ‘Mary said what she said’, regia di Robert Wilson

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C’è la storia, senza dubbio. Quella di Maria Stuarda, tragica e passionale, travolta dai cambiamenti in atto in Europa: le guerre anglo-scozzesi, da cui fuggì per essere accolta nella raffinata Corte francese di Caterina de’ Medici, la morte del primo marito, il re Francesco II, che la indusse a tornare in Scozia, la terra barbara e calvinista fatta di pietre, l’ostilità dei Lord protestanti che riuscirono a sollevarle contro l’intero paese, la diffidenza della cugina Elisabetta I, che finì per farla imprigionare nel malsano castello di Fotheringhay sino al processo e alla condanna a morte, 19 anni dopo. Ma, paradossalmente, la storia perde ogni importanza davanti alla sofisticata costruzione di una performance di raro fascino per interprete solista.

Lei, la luminescente, la Sovrana bianca come neve, scolpita nell’alabastro, nella quale morivano i poeti, ormai lontana dalla dimensione terrena eppure legata ad essa da una nostalgia che a tratti si colora di risentimento e disperazione, quasi di rivalsa, è all’inizio un’elegante figurina quasi immobile, di spalle, disegnata su un fondale abbacinante che per l’intera rappresentazione seguirà con incessanti, minime, variazioni di colore le sue sfumature psicologiche. La narrazione ha in sé le esposizioni e riesposizioni tipiche della fuga musicale, più precisamente della fuga-toccata, per la fraseologia irregolare che necessita di un virtuosismo fuori dell’ordinario.

Isabelle Huppert si muove progressivamente verso una politonalità che degrada in lalalangue rabbiosa o in spaventoso grido interiore – cui Wilson dà un’evidenza particolare illuminando di verde il volto dell’attrice – riorganizzando i suoni della scala cromatica sui movimenti interiori di Mary.

Il corpo/voce dell’interprete organizza il flusso spezzato, joyciano dei ricordi in modulazione epifanica serrata che si fa danza iterativa, rap prossimo all’isteria, ripetizione matematica di movimenti di evasione all’interno un cerchio invisibile. Si cade a testa indietro nell’inferno mentre le frasi di Mary si fanno dure e ossessive, sempre più atonali e simboliche, fino ad avvicinarsi alla soglia ultima del Not I beckettiano.

Alla fine di tutto, anzi dopo la fine, quando la regina osserva ormai dall’esterno, da una lontananza incolmabile, i servi che tolgono il drappo nero dal ceppo dell’esecuzione, siamo sopraffatti da una compassione impotente sentendo scendere da qualche parte – forse nel sangue stesso – l’improvvisa, distaccata malinconia della sua voce mentre esprime il rammarico per essere stata condannata a morire da sola, senza il conforto delle quattro dame di compagnia, né di nessun altro: nessuno alla mia destra né alla mia sinistra, solo il vento nelle orecchie.


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