Bologna, lo squadrone che tremare il mondo fa

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Sono oggettivamente lontani i tempi in cui il Bologna era “lo squadrone che tremare il mondo fa”. Sta di fatto, però, che la compagine felsinea, da sempre legata a filo doppio alla città, per festeggiare i propri centodieci anni ha deciso di trattarsi bene. Innanzitutto, complimenti al presidente Saputo per aver chiamato al capezzale di una squadra che l’anno scorso aveva danzato a lungo sull’orlo della retrocessione un direttore sportivo come Sabatini e, prima di lui, un tecnico dal carattere rude ma ricco di umanità come Mihajlović. Complimenti anche perché non da l’impressione di essere il solito magnate straniero venuto in Europa alla ricerca di una via rapida per pubblicizzare il proprio marchio bensì un appassionato autentico che ha scelto il Bologna per un atto d’amore. E complimenti, infine, ai ragazzi di questo nuovo e combattivo gruppo rossoblu per aver assimilato la storia e i valori di un club che negli anni Trenta, sorto la guida di Árpád Weisz seppe dominare senza arroganza, vincendo molto senza mai umiliare gli avversari e conservando i propri ideali democratici persino nel periodo più buio della nostra storia (anche il gerarca Arpinati, che pose le basi per i trionfi del Bologna di Weisz, a pensarci bene, era un fascista sui generis).

E poi Dall’Ara, il presidentissimo, per trent’anni alla guida della società. Un personaggio straordinario e irripetibile, intorno al quale esiste un’aneddotica memorabile e un’ammirazione che sfiora l’agiografia.Ma dove lo trovate un altro presidente che rispondeva ai giocatori che gli chiedevano un aumento di stipendio che Biavati, campione del mondo dei tempi eroici di Pozzo nonché inventore del doppio passo, prendeva tot, dunque nessuno, non essendo Biavati e non essendo campione del mondo, poteva chiedergli di più? E a chi controbatteva che fossero trascorsi trent’anni, il mitico Dall’Ara mostrava il contratto di Biavati, facendosi tuttavia perdonare con qualche regalo ad hoc e, soprattutto, con un amore che i giocatori e i tifosi avvertivano concretamente ogni giorno.
Senza dimenticare Fulvio Bernardini e i suoi ragazzi che, sul prato dell’Olimpico, riuscirono nell’impresa di aggiudicarsi lo scudetto, battendo allo spareggio l’Inter di Herrera che solo dieci giorni prima, a Vienna, aveva avuto la meglio sul leggendario Real Madrid di Di Stefano e Puskás. Il tutto, va ricordato, dopo essere stati coinvolti in un brutto caso di doping dal quale uscirono puliti in quanto innocenti.
Bologna, forse ancora oggi, conserva la sua anima nobile, dotta, pasoliniana, capace di coniugare i primi e gli ultimi, l’imprenditore e l’operaio, l’oste e l’intellettuale, un gigante come PPP, alcune notevoli firme del giornalismo (non a caso, è la patria del Guerin Sportivo) e buona parte del cantautorato italiano. Poi tutti in trattoria, davanti a un bel tortellino e a una salutare bottiglia di Lambrusco, aspettando la prossima partita, la successiva impresa, nuovi sogni da condividere e nuove passioni per volare con la fantasia.

Bologna e il Bologna, centodieci anni dopo, sono ancora qui, con la stessa passione e la stessa scanzonata allegria per la vita.
E a un bambino, la città delle Due torri potrà sempre narrare le gesta di Angelo Schiavio e recitare una magnifica preghiera laica: Negri, Furlanis, Pavinato, Tumburus, Janich Fogli, Perani, Bulgarelli, Nielsen, Haller, Capra. Quella domenica di giugno del ’64, a pochi giorni dalla scomparsa di Dall’Ara, morto sotto gli occhi di un incredulo Angelo Moratti mentre discutevano in Lega in merito alla fatidica gara, un direttore che capiva molto di molte cose ma era convinto che le partite si svolgessero in tre atti, il grandissimo Giovanni Spadolini, all’epoca alla guida del Carlino, mandò un giovane Luca Goldoni a descrivere gli umori della città, comprendendo il senso di una battaglia di popolo in cui Davide sfidava Golia. Quel 7 giugno, nell’afa di una città deserta, in cui il frinire delle cicale si mescolava alla radiocronaca accesa ovunque e al battito cardiaco accelerato di una comunità unita come non mai, Bologna e il Bologna vissero gli ultimi attimi di gloria. Bernardini venne portato in trionfo dai giocatori, ebbri di gioia come la città che amavano e li amava. Cinquantacinque anni di nostalgia: tutto è svanito, persino il PCI, ma quella gioia no, non può morire perché è un urlo che la città si porta ancora dentro.


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