Un delicato, cristallino vigore (Un ricordo di Valentina Cortese)

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I sogni non servono ad evadere dalla realtà, ma a conoscerla più profondamente (L. Bunuel)

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Sembravano vezzi, atteggiamenti, svaporamenti irreali. Invece era tutto vero, in Valentina Cortese, che ci lascia (anche lei) in questa “impura” estate di cordogli e smarrimenti. Eburnea, friabile,  evanescente, in realtà volitiva, determinata, forgiata di quella severa auto.disciplina ove (e raramente) maschera e volto, “arte di vita e vita di arte” coincidono in modo così disarmante e cristallino.

Più di un critico (che non la conobbe) si è sperticato, durante questa settimana post mortem, in giudizi temerari, genere..”La immaginiamo  ammantata di fragranze e vestimenti gabrieldannunziani, e nello stesso tempo  illanguidita da quel tedium vitae degno di Elina Makropulos e di tanto teatro cechoviano”. Fantasiosi  ma  ingenerosi, anzi fasulli.

Cercherò di dimostrarlo a iniziare da quel sintetico, affettuoso epitaffio che ha scritto per lei Giusi Ferrè (redattrice di “Io Donna”)

“E’ sempre stata bella Valentina Cortese. Ragazza di campagna dall’intricata storia familiare di bambina illegittima, di estrazione borghese (la madre era un’ottima pianista, n.d.r.), ma affidata a una famiglia di origine contadina”, allevata spartanamente  sotto il sole o il rigido freddo degli inverni piemontesi. “Sappiamo che, secondo  Platone, il bello coincide con il vero (secondo una nozione di “bellezza” intrinseca, soffusa, non vistosa- n.d.r.) e mai riflessione racconta meglio la vita e la personalità di questa grandissima donna e grandissima attrice, la cui carriera si intreccia, per lungo corso,  con quella di Giorgio Strehler e del  Piccolo Teatro di Milano”.  Ma solo in parte…

Dalla sua biografia,  Quanti sono i domani passati, a cura di Enrico Rotelli (pubblicata nel 2012), apprendiamo, ad esempio,  i suoi ricordi d’infanzia legati all’ambiente rurale  e a quelle donne semplici e forti che durante il duro lavoro nei campi si proteggevano la testa dal sole annodandovi il fatidico, “vezzeggiativo”  fazzoletto,  ” quel foulard che lei stessa, avanti negli anni ma sempre affascinante, aveva preso a indossare come omaggio nei loro confronti”.

E poi, non appena i nonni materni la riconducono a Torino, di nuovo in ambito della “buona società del tempo”, si fa strada in lei la voglia di recitare. E quindi, men che ventenne (quando ancora  frequenta il cinema parrocchiale), s’innamora “per caso e  avventura” di Victor de Sabata, famoso direttore d’orchestra più grande di lei di trentuno anni, che ella segue a Roma abbandonando il liceo, per poi proficuamente  frequentare, e diplomarsi a pieni voti, l’Accademia d’Arte Drammatica. Iniziando  così a rendersi indipendente e recitare in teatri di alto livello (“Bravo di Venezia” con Rossano Brazzi per la regia di Ettore Giannini, “Canadà” di C.G. Viola, “l padrone delle ferriere” di Onhet, “Amarsi male” di Mauriac, diretta da Orazio Costa);  ma, già ad inizio degli anni 40, firmare un contratto per la Scalera Film, che la sceglie “per i suoi delicati tratti somatici” e la introduce nel cosiddetto filone dei telefoni- bianchi.

Per gli annali dello spettacolo, Il suo primo ruolo di rilievo risale al 1942 quando interpreta Lisabetta ne La cena delle beffe di Alessandro Blasetti,  avendo però debuttato due anni prima in L’orizzonte dipinto diretta da Guido Salvini. Nel 1948 recita ne I miserabili di Riccardo Freda, che annovera Mario Monicelli fra gli sceneggiatori e un giovane Marcello Mastroianni fra gli interpreti. I due lavoreranno insieme anche in Lulù del 1953.

Nel 1948, Valentina Cortese firma un contratto con la 20th Century Fox e lavora con James Stewart e Spencer Tracy in Malesia (1949), mentre nel ’54 recita accanto ad Ava Gardner, Humphrey Bogart e Rossano Brazzi ne La contessa scalza. Nel 1955 in Italia, Michelangelo Antonioni la dirige nel film Le amiche, grazie al quale vince il Nastro D’argento come miglior attrice non protagonista. A Hollywood ha modo di frequentare anche Greta Garbo, Marilyn Monroe, Gregory Peck, Charlie Chaplin, Cary Grant, Fred Astaire e Paul Newman. Tutti citati e amabilmente evocati nella biografia che citavamo.

Spentasi la passione col marito “americano” Richard Basehart- che fu il memorabile Matto in La strada  di Fellini del 1951- Valentina rientra in Italia (“La mia avventura a Hollywood finì con un whisky in faccia al re della Fox e il rammarico di avere detto no a Chaplin per Luci della ribalta“), portando con se il figlio Jack (scomparso prematuramente nel 2012 e infliggendo alla madre “il mio primo e unico colpo mortale”),  legandosi come per gemmazione spontanea, a Giorgio Strehler in sodalizio di amore a palcoscenico, coagulato in una serie di interpretazioni, una più “elevata” dell’altra.     Sarà quindi Sonia in Platonov a fianco di Tino Buazzelli, Tino Carraron e Sarah Ferrati, passando poi alla Erdedità del Felis  di Illica, protagonista Carlo Mazzarella ed a El nost Milan di Bertolazzi, nel ruolo di Nina, per l’edizione del 1961.

Vibratile, non svenevole o gracilmente arrendevole alla “grossolanità” dei plateali languori, Valentina Cortese matura semmai un suo stile espressivo minimalista ma robusto, di forte spessore drammatico, come sarà per la trilogia dell’Enrico VI recitata in due giornate, nel 1965, prima al Lirico di Milano, poi al Comunale di Firenze per una delle prime (allora prestigiose) kermesse dei Teatri Stabili italiani. La metà degli anni sessanta, del resto, è quella che per così dire le “dà consacrazione” di attrice matura e dalla pastellata cifra prossemica “liddove il personaggio in cui ella si incarna è sempre sorvegliatissimo e restituito nei suoi risvolti critici e autocritici” (nella riconoscibile lezione-connubio con Strehler).

Emergeranno così, e in eccellente progressione, la Ilse de I giganti della montagna forte di una lunga tournée europea (1966) e “Santa Giovanna dei Macelli apprezzato, nel 1970, al Maggio Musicale Fiorentino, entrambi preceduti dal Processo a Giovanna d’Arco a Rouen di Anna Seghers, nella riduzione di Brecht e la regia di K. M. Gruber. E successivamente, una magmatica Lulù di Wedekind, diretta da Patrick Chérau, la zingaresca Rawneskaja de Il giardino dei ciliegi chiusa nel candido bozzolo delle sue chimere infantile, “ma anche nel sudario di morte di una società che trascina con se la vita e la Storia”, come grande meteorite senza senso e destinazione.

Lontana dal Piccolo, la Cortese sarà la vivace e spettrale Anna di Old Times di Pinter (1974), diretta da Luchino Visconti, in magnifico trio con Umberto Orsini e Adriana Asti;  e la Maria Stuarda dell’omonimo dramma shilleriano, diretta da Franco Zeffirelli e Rossella Falk nel ruolo dell’algida sovrana Elisabetta. Di ritorno al cinema, cresce il sodalizio artistico con Franco Zeffirelli che la vuole in Fratello sole, sorella luna del 1971, Gesù di Nazareth del 1976, dove interpreta Erodiade, e Storia di una capinera del 1991, dal breve (lapidario, protofemminista) romanzo di Verga.

Altre partecipazioni di grande rilievo saranno quelle a Giulietta degli spiriti di Fellini, L’assassinio di Trotskij di Losey e –soprattutto- ad Effetto notte di Truffaut, per il quale riveve la nomination agli Oscar.

Nel 1980, Valentina Cortese sposerà (all’improvviso) l’industriale Carlo De Angeli, suo vicino di casa, poi scomparso nel 1998, diradando le sue  apparizioni filmiche, limitate a    Via Montenapoleone di Carlo Vanzina e (nel 1988) al  doppio ruolo di Daisy/Regina della Luna in  Le avventure del barone di Munchausen di Terry Gilliam, accanto a Robin Williams.

All’inizio del nuovo millennio, per la regia di Fabio Battistini, porta in scena con rara maestrìa  il Magnificat di Alda Merini.  E sarà il suo congedo definitivo dall’universo che aveva attraversato, da inquieta ragazzina, come Alice nel paese delle meraviglie.  Rispettiamone riservatezza, memoria e terribili dolori in terra -per quella morte ‘al lavoro’ che scontiamo vivendo


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