Ruanda, sangue caldo 

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È ancora caldo il sangue del Ruanda. Ed è bene che lo rimanga a lungo perché il mondo deve rendersi conto di ciò che è accaduto in quella terra un quarto di secolo fa. È bene che tutti prendano coscienza del genocidio che si è consumato in cento giorni, con circa ottocentomila persone assassinate nei modi più barbari, per lo più a colpi di machete, e una guerra civile protrattasi sino al 2003, per un totale di cinque milioni di morti nel silenzio assordante della comunità internazionale.
È bene che quel sangue rimanga lì dov’è, che non si rapprenda e ci ricordi ogni giorno che non intervenire non è stato un errore ma una precisa scelta, identica a quella compiuta l’anno successivo a Srebrenica, dove i caschi blu olandesi si giocarono la propria residua credibilità non muovendo un dito per impedire il massacro di ottomila civili bosniaci musulmani ad opera dell’esercito serbo guidato da Ratko Mladić.
Un disastro clamoroso, il dissolvimento dell’ideologia onusiana, l’amara sconfitta di un sogno che mezzo secolo prima era stato il simbolo della riscossa dell’umanità dopo la barbarie del neo-nazismo, i campi di sterminio e le due atomiche lanciate contro il Giappone e che, da quel momento in poi, ha smarrito gran parte della propria autorevolezza, fino ad arrendersi alla prepotenza del potente di turno.
È bene che oggi Clinton, all’epoca presidente degli Stati Uniti, chieda scusa per essersi reso, di fato, complice di un massacro.
È bene che tuttora il presidente ruandese, Paul Kagame, accusi Parigi di complicità nel genocidio, visto che l’allora presidente Mitterrand si preoccupò unicamente di far evacuare i propri connazionali tramite l’esercito, senza partecipare ai soccorsi.
È bene anche che non si dimentichino le ragioni della mattanza, ossia l’abbattimento di un aereo di Stato, il 6 aprile 1994, a bordo del quale viaggiavano Juvenal Habyarimana e Cyprien Ntaryamira, rispettivamente presidenti del Ruanda e del Burundi, il che scatenò la furia degli hutu contro i tutsi, dopo che le due etnie avevano convissuto con alterne fortune e momenti di maggiore o minore conflittualità a seconda dei periodi per quasi un secolo.
Una motivazione atroce, quasi un casus belli, e la regolazione di vecchi conti rimasti in sospeso troppo a lungo, riportandoci al discorso iniziale del sangue ancora fresco, del dolore mai sopito, di una convivenza difficile, a tratti straziante e drammaticamente segnata dalle vicende del colonialismo europeo.
Si arrivò a un tale livello di follia che mariti hutu giustiziarono mogli e figli tutsi per salvarsi la vita e lo stesso fecero sacerdoti e suore: una brutalità senza eguali e impossibile da dimenticare, tranne che per coloro, noi occidentali, che di ciò che è accaduto da quelle parti a malapena se ne sono accorti.
Non conosciamo la verità, non ci interessa, ci rifiutiamo di comprenderla  e non ci rendiamo conto di star sprofondando verso nuovi abissi a livello globale, considerando normale tutto ciò che normale non è affatto.
Il sangue non si è asciugato, per fortuna, ma il silenzio è ancora assordante, il che tradisce il nostro egoismo, la nostra indifferenza e, a pensarci bene, anche la nostra comprensibile vergogna.

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