Una notte di 12 anni: una riflessione sulle recenti derive autoritarie

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Oltre 4.000 giorni di privazione assoluta di libertà, buio, silenzio, torture, percosse, razionamento di cibo e acqua. Quanto può sopravvivere un uomo in tali condizioni, quanto può umanamente resistere alla segregazione totale? Sembrano queste le domande poste dal film “Una notte di 12 anni” di Alvaro Brechner, in sala da oggi distribuito da Bim e Movies Inspired. Il racconto dell’Uruguay nero degli anni ‘70 e della dittatura militare non è un film politico, non ha interesse a comprendere le ragioni storiche di tutto questo, troppo recenti (forse) gli avvenimenti per poterne dare una lettura esaustiva.  E’ dunque un focus sulla storia di tre membri di spicco del MLN – Movimiento de Liberacion Nacional, o più noto come Movimento Tupamaro – di ispirazione Marxista-Leninista, attivo in Uruguay tra gli anni ‘60/’70 – José “Pepe” Mujica, Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro, che, prelevati nottetempo dal loro carcere il 7 settembre del 1973, luogo in cui erano finiti per essere stati gli autori di alcuni delitti politici, vennero avviati ad una via crucis terribile: incappucciati, legati, denutriti, condannati al silenzio, privati di tutto; in pratica ridotti ad una condizione di schiavitù, in linea con la dottrina delle più feroci dittature del ‘900: l’annichilimento dell’uomo.

E’ un miracolo che siano sopravvissuti a tanto. “Voi non siete detenuti, siete ostaggi: e vi faremo impazzire” aveva promesso l’ufficiale del governo golpista, guidato da Juan María Bordeberry, nel tirarli fuori dalla prigione per farli, di fatto, scomparire. Il tutto avvenne tra il 1973 e il 1985. Ma la pellicola non racconta solo la detenzione e l’orrore di quei dodici anni. Non manca una profonda poesia, un elemento quasi impensabile considerate le condizioni. Non mancano i sogni – più spesso gli incubi – dei poveretti, sempre sull’orlo della fine, in bilico tra stenti e pazzia, i ricordi della vita precedente, il colore dei prati, le giornate assolate, la famiglia. E neppure gli incontri positivi in quella terribile odissea: Rosencof diventerà ‘poeta’ di un sergente innamorato di una ragazza venendo ricompensato con mate, pane caldo, carta e matite.

“Lui conosce le condizioni? No, le conoscerà il suo corpo” è la lugubre citazione di Kafka, “Dalla colonia penale” che introduce il film. “Gli unici sconfitti sono quelli che si arrendono”, dice la madre di Mujica di fronte al figlio ad un passo dalla follia. Brechner ci offre un film durissimo ma carico di umanità. Il tempo scorre lentamente, scandito da gli anni 1974, 1975, 1977, 1979, 1981… fino alla liberazione, che arriva dopo quasi due ore di pellicola. Il momento finale è denso di commozione: i protagonisti, insieme ad altri prigionieri politici, in una sorta di catarsi collettiva dalla condizione sub-umana in cui erano stati costretti, possono finalmente tornare alla vita e ricongiungersi ai propri cari. I tre tupamaros con il ritorno della democrazia sarebbero poi diventati chi presidente dell’Uruguay, chi scrittore e poeta di fama, chi  deputato e ministro della Difesa.

Straordinaria la prova attoriale dei tre attori, senza i quali questo film certamente non esisterebbe: Antonio De La Torre (Mujica), Chino Darín (Rosencof) e Alfonso Tort (Huidobro), i quali hanno offerto alla camera da presa corpi macilenti e denutriti, a testimonianza di quei 12 anni di inferno.


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