Salari, ambiente, salute: italiani più attenti al mercato dell’abbigliamento

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Indagine condotta per Changing Markets Foundation e della Campagna Abiti Puliti: 2 italiani su 3 dichiarano di non essere disposti a comprare articoli da marchi la cui produzione è associata all’inquinamento; per 8 su 10 è importante che i marchi dichiarino se i dipendenti ricevono un salario dignitoso

ROMA – I consumatori italiani diventano sempre più consapevoli, non solo nel settore della produzione alimentare ma anche in quello dell’abbigliamento e della moda, che si stima arriverà a un valore di mercato di 42 miliardi di dollari nel 2020. I grandi brand non possono più contare su una fiducia indiscussa ma devono mettere in conto, da parte di chi compra, un occhio sempre più vigile e attento sugli aspetti che riguardano l’ambiente, la salute e le condizioni dei lavoratori. E’ quanto rivela un sondaggio effettuato da Ipsos MORI per conto di Changing Markets Foundation e Clean Clothes Campaign, presentato questa mattina, che ha evidenziato che solo due Italiani su dieci (22%) ritengono che l’industria informi adeguatamente i consumatori riguardo all’impatto produttivo sull’ambiente e sulla popolazione e otto su dieci (82%) ritengono che i marchi debbano fornire informazioni sugli obblighi assunti e le misure adottate per ridurre l’inquinamento. L’indagine è stata effettuata presso consumatori adulti tra i 16 e i 75 anni in sette Paesi: GB, Usa, Francia, Germania, Italia, Polonia e Spagna. Sono state realizzate 7.701 interviste, pari a più di 1.000 interviste per ogni Paese.

Tornando ai risultati che riguardano il nostro paese, due italiani su tre (64%) dichiarano di non essere disposti a comprare articoli di abbigliamento da marchi la cui produzione è associata all’inquinamento e addirittura il 72% (i tre quarti degli Italiani) pensa che i marchi di abbigliamento debbano assumersi la responsabilità di ciò che avviene nelle loro catene di produzione e distribuzione e debbano garantire che i loro articoli siano prodotti in maniera ecosostenibile. Per quello che riguarda le condizioni di lavoro e di salario ben otto italiani su dieci (78%) considerano importante che i marchi dell’abbigliamento dichiarino in maniera trasparente se i dipendenti che lavorano nelle proprie filiere ricevono un salario dignitoso e il 58% sostiene che non comprerebbe prodotti da un marchio che non paga i giusti compensi.

Afferma Urska Trunk, della Changing Markets Foundation: “Si tratta dell’indagine di mercato più approfondita mai realizzata relativa alla percezione da parte dei consumatori degli standard ambientali e lavorativi nell’industria dell’abbigliamento. L’indagine rivela che i consumatori si aspettano che i marchi si assumano la responsabilità di ciò che avviene all’interno delle proprie filiere e chiedono maggiore trasparenza sia per quanto riguarda le condizioni di lavoro sia per il rispetto dell’ambiente. I risultati dell’indagine puntano tutti verso un netto cambiamento di mentalità da parte dei consumatori i quali chiedono una maggiore assunzione di responsabilità da parte dell’industria e più informazioni”.

Gli appelli. Sono sempre più numerosi gli appelli rivolti all’industria della moda italiana affinché adotti processi produttivi più responsabili. Nonostante l’alto valore di mercato del settore, le rivelazioni fatte dalla Clean Clothes Campaign relative alle misere condizioni di lavoro nelle fabbriche in Albania e Macedonia, dove vengono prodotte le calzature cosiddette “Made in Italy” per i marchi di lusso, e i risultati non soddisfacenti delle analisi di “internal auditing” relative alle condizioni di lavoro, hanno causato un danno di immagine e hanno condotto l’opinione pubblica a fare pressione affinché questa situazione cambi.

I brand del lusso. In linea generale i marchi del lusso elencati nel sondaggio non sono considerati migliori dei marchi più economici o dei rivenditori al dettaglio. Il sondaggio ha infatti messo in luce alcuni dati sorprendenti relativi ai brand del lusso. Per esempio, il 10% degli italiani associa il marchio Gucci a una filiera ecosostenibile, contro il 13% di Zara e il 17% di H&M, nonostante ricerche condotte dalla Clean Clothes Campaign rivelino come Gucci si rifornisca in diversi Paesi dove sussistono misere condizioni di lavoro, come la Serbia.

Questione viscosa. La viscosa è una fibra vegetale che sta diventando un’alternativa sempre più diffusa al cotone o ai prodotti sintetici.  Ma la produzione della viscosa necessita di sostanze chimiche tossiche che hanno effetti nocivi documentati sull’ambiente e sulla salute delle persone se non debitamente controllate. Più di 303.000 consumatori dell’Ue hanno firmato una petizione lanciata da WeMove per chiedere all’industria dell’abbigliamento di impegnarsi nella produzione di viscosa pulita.
L’indagine Ipsos MORI ha anche rivelato che il 71% degli italiani concorda sul fatto che i marchi dell’abbigliamento dovrebbero fornire informazioni sui loro produttori di viscosa e il loro impatto sull’ambiente.
Secondo il rapporto della Changing Market Foundation Dirty Fashion: on track for transformation  (La moda sporca: sulla via della trasformazione), i brand del lusso italiani quali Gucci, Prada e Fendi sono stati inclusi tra i marchi peggiori per quanto riguarda la viscosa, accanto a rivenditori al dettaglio della fascia più bassa come Lidl ed ASDA.
“Questa indagine indica un forte sostegno da parte dei consumatori alle azioni intraprese dall’industria della moda per garantire che i marchi producano articoli di abbigliamento in maniera ecosostenibile. Le aziende del settore dovranno passare a metodi più “puliti” per soddisfare le aspettative dei consumatori. Ci stiamo rivolgendo alle aziende italiane che si occupano di abbigliamento chiedendo di seguire l’esempio di altri marchi Ue e firmare la nostra Roadmap per una filiera della viscosa più pulita”, aggiunge Urska Trunk della Changing Markets Foundation.

Salari bassi, serve più informazione. Sempre secondo il sondaggio, più della metà dell’opinione pubblica italiana (54%) ha la sensazione che l’industria della moda paghi salari troppo bassi ai lavoratori delle proprie filiere e due terzi (67%) ritiene che sia difficile sapere con certezza se gli articoli di abbigliamento che acquistano rispettano gli standard etici più alti.
“I consumatori non sono più disposti a comprare prodotti di quei marchi che non pagano salari dignitosi – dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign -. Se l’industria dell’abbigliamento non si decide ad agire concretamente, convertendo la produzione verso una maggiore sostenibilità e legalità, è giunta l’ora che lo facciano direttamente i governi”.

Da redattoresociale


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