Il potere di chi sa rendersi invisibile, o del guardarsi dagli uomini taciturni

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Il nome di Dick Cheney non vi dice nulla? La sua faccia anonima ancor meno? Dopo Vice la sua figura vi resterà sgradevolmente attaccata addosso, anche grazie alla mimica facciale di un irriconoscibile Christian Bale, non a caso nominato all’Oscar come miglior attore protagonista. Come muove la bocca quando ha in mente qualcosa e prima di dire qualcosa, qualcosa di apparentemente irrilevante, qualcosa di non politicamente impegnato, qualcosa del tutto privo di riferimenti ideologici. A lui interessa solo esercitare il potere, il più ampio possibile, entrare nella stanza dei bottoni. Dopo averci accompagnato e spiegato tenendoci per mano i meccanismi più cinici della crisi del 2008 ne La Grande scommessa – The big Short, il regista Adam McKay ci accompagna proprio lì, alla Casa Bianca, nelle viscere delle dinamiche che portano il paese più potente del mondo a inventarsi di sana pianta i motivi per una guerra in Iraq, sulla scia dell’onda emotiva causata dall’attentato contro le Torri Gemelle dell’11 settembre.

Verità con conseguenze così tragiche non possono che essere raccontate con leggerezza, o diventano impossibili da guardare negli occhi. La commedia paradossale di McKay viene quindi narrata dal classico “cittadino qualunque”, che solo alla fine si scoprirà per quale motivo sia così intimo con Cheney, è ricca di piccole rotture della quarta parete, di momenti in cui i personaggi parlano direttamente con il pubblico guardando in camera e anche di spassosi inserti di dialogo in cui quello che si suppone sia normale venga detto in una data situazione (ad esempio il menù recitato dal cameriere in un ristorante) viene sostituito da altre parole che svelano scenari (ad esempio, sempre nel caso del cameriere, l’elenco delle future leggi illiberali che verranno promulgate in nome della lotta al terrorismo). Il risultato è via via spiazzante, fino ad arrivare ai titoli di coda anticipati, o comico a partire dalle didascalie iniziali, che fin da subito ammiccano allo spettatore, o amaro ai limiti del disagio, come nel caso dei focusgroup con i consumatori per prevedere le reazioni dell’elettorato a un discorso per motivare una guerra fatta solo per opportunismo. Inquietante e insieme ironico, sembra un paradosso ma è un film tutto costruito su questo registro ambivalente e su continui salti tra passato e presente, che ci accompagnano a scoprire come un ex “buono a nulla” semialcolizzato diventi un “pezzo di merda” che riesce a ottenere da George W. Bush molto più potere di quello canonicamente attribuito a un vicepresidente su materie “banali” come “amministrazione, esercito, energia e politica estera”.

Già Michael Moore ci aveva svelato l’incredibile irrazionalità delle reazioni che seguirono l’attacco alle Torri Gemelle nell’imprescindibile documentario 9/11, dove il Presidente Bush figlio fa una figura meschina e viene presentato in tutta la sua inadeguatezza. Qui è Sam Rockwell (candidato all’Oscar come miglior attore non protagonista) che impersona un imbarazzante George W. Bush, impagabile nella scena in cui sbocconcella una coscia di pollo mentre consegna a Cheney un potere sconfinato.

“Ma noi in che cosa crediamo?” domanda un giovane Cheney a un Rumsfeld (David Carrell) già nel pieno della sua carriera, scatenando una lunga risata del suo anfitrione, da cui si coglie che la mancanza di etica è l’orizzonte ineludibile in cui deve muoversi chi frequenta il potere. Le immagini più poetiche di tutto il film sono le riprese in Cambogia, che il presidente Nixon avrebbe bombardato di lì a poco. Cheney crede forse solo nell’amore di sua moglie Lynne (una Amy Adams trasfigurata), spietata compagna che lo raccoglie letteralmente dal vomito e lo sprona senza mezzi termini verso mete professionali di un certo peso, che pretende da lui risultati tangibili, incrollabile nella convinzione di non aver puntato sul cavallo sbagliato: la sua dedizione all’irrobustimento caratteriale del marito è direttamente proporzionale solo all’ambizione di donna che negli anni ’60 non poteva mirare a un successo personale se non come “moglie di”. La sua apoteosi si compie quando, nella scena del ricevimento, può dire, raggiante e diabolica, che in sala c’è solo chi li invidia o chi li teme, come se fosse il più desiderabile degli status.

Anche se la voce narrante a volte si trova a giustificare passaggi un po’ forzati nella trama o a ricucire parti in cui si sente la mancanza di una spiegazione più accurata, il film sostiene il ritmo veloce del montaggio e i cambi di passo, tiene incollati allo schermo, diverte e insieme interroga profondamente sui meccanismi di consenso nelle democrazie occidentali, sui delicatissimi ingranaggi della storia e sugli interessi economici individuali coperti da motivazioni politiche raffazzonate. Il film si chiude con un senso di sconfitta per la civiltà, anche dopo il brevissimo rientro dopo i meravigliosi titoli di coda, incastonati in un’esposizione di coloratissime esche per la pesca, alla quale Dick Cheney ama dedicarsi. E’ come una metafora della sua silenziosa ma inesorabile ascesa al potere: poche parole, un’affinata capacità di rendersi invisibili e di attendere con pazienza che, al momento giusto, la preda abbocchi all’amo, di sua spontanea volontà. Ed è così che Dick Cheney, ci spiega McKay, vede in ciò che tutti avevano giudicato un pericolo letale (l’11 settembre), un’opportunità senza precedenti. E’ così che trasforma la risposta al terrorismo internazionale in caccia grossa per la multinazionale dell’industria energetica che aveva guidato fino a poco tempo prima di diventare braccio destro di Bush. E ci lascia tutti così, con un groppo in gola e senza speranze. Dev’essere quel maledetto amo nel gargarozzo…


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