Dei delitti e delle pene ed il caso Battisti

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Premetto di non avere sul piano politico alcuna simpatia né stima e considerazione per chi impugnò le armi e si diede alla lotta armata illudendosi di poter per questa via dare un’accelerazione al percorso, che all’epoca sembrava avviato, di “transizione alla transizione”  verso  una società meno ingiusta, più democratica ed egualitaria. Invece, dopo aver disseminarono di morti e di lutti il Paese, finirono per farsi  complici involontari, ma alla fine forse non del tutto inconsapevoli,  della “strategia della tensione” nel   contribuire a bloccare ed invertire il percorso che avrebbero voluto accelerare. Così si avviò una deriva che ci ha portati all’assetto odierno della società, più ingiusto e diseguale di quello di  allora. Il mio giudizio politico ed etico sul terrorismo e sui terroristi è dunque da sempre severissimo e senza appello, come attesta qualche articolo a mia firma su il manifesto di quegli anni.

Se quindi non mi associo all’ondata di tripudio per la cattura e l’incarcerazione di Cesare Battisti e non mi sento di affermare che Giustizia sia stata fatta,  come proclamano in tanti, non è per benevolenza verso chi fece quella scelta sciagurata ed insipiente, ma perché la esecuzione di una condanna a quarant’anni dai crimini commessi chiama  in causa concetti quali giustizia, pena e l’idea stessa di società, sicché sono pieno di dubbi e  di perplessità.

Se i quarant’anni trascorsi fossero passati invano per la persona condannata, se  lei fosse rimasta qual era, ferma nello stesso stato d’animo, con le medesime idee e quindi incline a reiterare   ora  i reati commessi un tempo  se solo se ne  ripresentassero occasioni e condizioni, non avrei dubbi che catturarla e rinchiuderla in carcere sarebbe giusto ed indispensabile. Ma se per avventura – e questo sembrerebbe poter essere il caso di Battisti – la personalità del reo si fosse profondamente modificata, se egli avesse preso consapevolezza di sé ed acquisito una coscienza diversa da quella che lo indussero a compiere i reati ascrittigli, allora ci si può interrogare sul senso dell’esecuzione così ritardata di una condanna e chiedersi  se sia giusto incarcerare una persona ormai  diversa da quella che commise i reati per i quali  è stata condannata. Le  pene,infatti,  secondo la Costituzione Italiana (art. 27) “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma se è stata la Vita  ad incaricarsi di rieducarlo perché infliggergli  ora la pena giustamente comminatagli quando era tutt’altra persona?

Mi si dirà che la pena ha anche una finalità risarcitoria della Parti Offese e della Società. Va bene, Ma in cosa consiste, in cosa deve consistere il “risarcimento”? Nell’afflizione del reo, nella sua sofferenza, per cui più egli soffre più le Parti Offese e la Società vengono soddisfatte? Cioè ci poniamo sulla scia di quella consuetudine che ritengo infame ed infamante per il paese nel quale fosse praticata,  secondo cui   i parenti di una persona assassinata hanno il diritto di assistere alla operazione del boia che uccide l’assassino e all’agonia di quest’ultimo?Vogliamo cioè collocarci in una zona dove sfuma la linea di separazione tra giustizia e vendetta?  E cosa centrerebbe un risarcimento del  genere con la  Civiltà del Diritto?

Qui viene  in ballo l’idea di società. Se la si concepisce composta di individui che competono tra  loro in   una selezione di tipo darviniano  nella  quale i più forti prevalgono mentre i più deboli recedono sino ai casi di emarginazione e di esclusione, il risarcimento può ben consistere nell’espulsione  dal consorzio civile anche per sempre di un condannato,  indipendentemente dal suo  stato e dalle sue condizioni.  Se invece si ha della società l’idea di un intreccio di relazioni cooperative che tenda  a dare a ciascun@ ciò di cui ha bisogno e ad ottenere da ognun@ ciò che può dare, allora l’estromissione dalla società di chiunque è sentita come una perdita per tutt@ e il risarcimento consiste nella redenzione del reo e nella sua restituzione  alla società nella pienezza delle sue facoltà e potenzialità.

Questioni, dunque, complesse e problematiche che richiamano il noto brocardo “ summum ius summa iniura” con il quale Cicerone avvertì che il rigorismo  nell’applicazione della legge può portare a commettere ingiustizie grandissime. Temi da affrontare perciò con cautela e con il beneficio del dubbio . C’è chi  anche rispetto a questo frangente, asserragliato nelle proprie certezze, ostenta una  pericolosa sicurezza. Credo che  ci sia  da temerlo. Per quel che mi riguarda preferisco restarmene con le mie tante  perplessità e i non pochi miei dubbi. Vorrei solo  rammentare che la “gogna” tra le pene previste dal nostro ordinamento non c’è.


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