Verità e giustizia per Saleem Shahzad, giornalista pakistano ucciso nel 2011. Articolo 21 rilancia appello Adnkronos

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Saleem Shahzad era un giornalista pakistano, collaborava con Aki – Adnkronos International dal 2004. Era coraggioso, leale, determinato a fare bene il suo mestiere, raccontando semplicemente i fatti, la verità.
Quella verità che oggi, insieme alla giustizia per la sua morte, reclamiamo noi di Articolo 21 insieme alla Federazione nazionale della stampa rilanciando l’appello dei colleghi dell’Adnkronos che non hanno mai dimenticato Saleem.
La vicenda inizia il 27 maggio del 2011, quando esce un suo articolo su un attacco terroristico contro una base della Marina pakistana e in cui riferiva di possibili legami tra ufficiali pakistani e al-Qaeda. Due giorni dopo Shahzad viene rapito.
Il 31 maggio, in un canale tra Sara e Alamgir, a circa 150 chilometri da Islamabad, ritrovano il suo corpo con evidenti segni di torture.
Saleem è stato ucciso barbaramente perché era un giornalista a schiena dritta. Aveva poco più di 40 anni, una moglie e tre figli.
Reporter d’inchiesta in Afghanistan, Iraq, Libano e Giordania, ma anche in Iran, Siria e negli Emirati Arabi Uniti, già nel 2006 aveva rischiato la vita insieme al suo interprete. Un gruppo di talebani nella provincia afghana di Helmand, nel sud dell’Afghanistan, li sequestra e ne minaccia l’uccisione. Solo il pagamento di un riscatto pone fine al loro rapimento.
Nonostante i pericoli Shahzad non ha mai pensato di lasciare il giornalismo, che era la sua più grande passione prima ancora che il suo lavoro.
La storia di Saleem è ricordata sul ‘Muro della Memoria’ del Newseum di Washington che onora chi ha perso la vita cercando o diffondendo notizie.
Oltre a essere corrispondente di Aki, è stato il capo dell’ufficio pakistano di Asia Times Online e membro dell’Unità di ricerca in sicurezza pakistana dell’Università di Bradford. Autore del libro ‘Inside Al-Qaeda: Beyond Bin Laden and 9/11’ pubblicato dalla casa editrice britannica Pluto Press, nell’opera Shahzad tracciava un quadro generale di al-Qaeda e delle relazioni con il movimento talebano, riportando le motivazioni che hanno spinto verso il terrorismo i leader dei miliziani jihadisti.
“Shahzad in ‘Inside al-Qaeda and the Taliban’ aveva spiegato anche le tattiche e le strategie dei più controversi movimenti islamisti attivi in Pakistan sulla base di informazioni raccolte tra il 2002 e il 2006 – si legge in una scheda sul suo profilo -Una sezione speciale era stata dedicata all’analisi della nuova generazione di terroristi di al-Qaeda ispirata all’ideologia estremista dell’egiziano Ayman al-Zawahiri. Un capitolo a parte, infine, era stato dedicato alle ‘menti’ che hanno ideato la strage di Mumbai del novembre 2008, nella quale morirono oltre 170 persone e della quale sono indicati come responsabili i miliziani pakistani di ‘Lashkar-e Taiba'”.
La storia di Saleem ricorda molto quella di Giulio Regeni, ma per lui non sono partite campagne social, né si sono mosse istituzioni importanti.
Per questo troviamo doveroso rilanciare la richiesta non solo dei colleghi dell’Adnkronos ma anche, e soprattutto, della moglie Anita e dei figli.
”Temo non si saprà mai chi e perché ha ucciso mio marito ma credo nella giustizia di Allah per Saleem e per i nostri sacrifici” sono state le parole della donna affidate a Marco Liconti, collega e amico del giornalista pakistano.
Rimasta a vivere con i tre figli in Pakistan, considerato il secondo Paese al mondo più pericoloso per i giornalisti dopo il Messico, Anita ha raccontato le difficoltà incontrate dopo la morte di Saleem.
”Non abbiamo ricevuto alcun aiuto dal governo. Non abbiamo ricevuto aiuto da nessuno”, ha detto la vedova ricordando le difficoltà nel ”dover gestire da sola” i suoi figli, le finanze e anche gli aspetti emotivi.
”Sono stanca, ma questo è quello che la vita mi ha dato – è stato lo sfogo di Anita – Allah mi ha reso grazia dandomi tre figli buoni e intelligenti. Il tempo mi renderà giustizia, per questa lotta che sto conducendo da sola”.
La vedova parla di un ”vuoto incolmabile lasciato dal padre nei confronti dei figli” che neanche la sua forza e il suo coraggio possono colmare.
In Pakistan si fanno poche illusioni che un giorno si giunga alla verità ma sia la moglie di Saleem sia colleghi e attivisti per i diritti umani continuano a lottare per avere giustizia.
Zohra Yusuf, presidente della Commissione per i diritti umani del Pakistan (Hrcp), ricorda bene Saleem Shahzad, di cui condivide la professione oltre che la nazionalità.
La Yusuf, intervistata dall’Adnkronos, ha manifestato scarsa fiducia nei confronti delle autorità pakistane.
“In un Paese in cui non si riesce nemmeno ad identificare, processare e condannare le persone coinvolte nell’assassinio di un ex premier e leader politico di primo piano (Benazir Bhutto, ndr), la verità sulla morte di un giornalista potrebbe non essere mai scoperta” il suo amaro giudizio.
L’inchiesta sull’omicidio di Shahzad non ha portato a nessuna conclusione, come evidenziato dal rapporto della Commissione di esperti chiamata a indagare sul caso. Le organizzazioni per i diritti umani come l’associazione della stampa non hanno mai avuto dubbi sulle responsabilità dell’Isi, che hanno fatto pagare con la vita a Saleem i suoi articoli sulle infiltrazioni di Al Qaeda e dei Talebani all’interno delle forze armate.

Anche per la Yusuf le circostanze del rapimento e dell’uccisione di Shahzad escludono che si potesse trattare di un crimine comune. A parte i segni delle torture, la preparazione e l’esecuzione del rapimento escludono la possibilità che sia stata opera di non professionisti.
Eppure nessuna prova, né testimonianze, sono mai state prodotte in merito a questo delitto.
Sono ormai passati 7 anni e mezzo, le difficoltà di chi continua a cercare la verità sono evidenti come le limitate speranze di riaprire il caso.
Ma è doveroso provarci come proseguire nella richiesta di giustizia per Saleem, per la sua famiglia e per i suoi colleghi.


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