Scrivere a tempo, il conto alla rovescia

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di Lucio Luca

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Lucio Luca, giornalista di Repubblica e autore del libro “L’altro giorno ho fatto quarant’anni” (Laurana editore)

“Dai, non perdiamo altro tempo, andiamo a firmare questa bella estorsione…”.
Me la ricordo bene quella mattina. Stavo accettando una porcheria, un contratto di qualche mese che mi avrebbe tolto qualsiasi tutela riducendomi sul lastrico. Sapevo che non avrei potuto pagare il mutuo, si sarebbero portati via la casa, avrei perso mia moglie, mia figlia. Meglio per lei: almeno a scuola non si sarebbe dovuta vergognare di un papà che si era illuso di fare un mestiere importante e, invece, aveva scoperto di essere un fallito.
Cominciava il conto alla rovescia. Quel contratto era una bomba a orologeria, programmata per esplodere e fare più danni possibili. Il mio countdown verso l’inferno.
Potrà mai essere libero un giornalista precario? Uno che scade fra cento o duecento giorni? Potrà continuare a tenere la schiena dritta quando non ha i soldi per arrivare a fine mese e il padrone lo tiene stretto per le palle?
Il precariato ti svuota il cervello, ti costringe ad accettare il peggiore dei compromessi, ti annulla completamente davanti a un padrone che te lo farà pesare in qualsiasi momento. Non hai più strumenti per combattere, non ti resta nemmeno il tempo, ammesso che tu ne abbia ancora la voglia. Capisci che per una vita ti sei sentito un dio e invece non eri altro che un ingranaggio. Ti guardi allo specchio e ammetti che sì, hanno vinto loro, e tu devi fartene una ragione: “Scendi dal piedistallo Alessà, ti senti un cazzo e mezzo ma stai a Cosenza, anzi a Donnici. Non hai ancora 40 anni, e hai già buttato via una vita. Ora, sei hai le palle, prova a ricominciare dall’inizio, a inventarti un’altra storia”.
Se hai la forza ci provi, ma poi scopri che mancano 187 giorni alla fine del contratto, domani 186 e poi 185, 184… E finisci per impazzire perché tutto quello che hai costruito si sgretola davanti a te. Come un terremoto del settimo grado che ti sorprende per strada e tu guardi la tua casa che viene giù e non puoi fare nulla per impedirlo. Puoi solo piangere.
“Oggi sono diventato precario, ho subito una estorsione, me la pagheranno. é stato umiliante. Dicono che mi stanno valorizzando, che c’è un disegno. Dicono proprio così, ma ovviamente non credo a una sola parola. é un fatto che sono fuori o comunque sotto ricatto”.
“Lavoro, un disastro. Famiglia, un disastro. Il resto, non esiste. Ho commesso tanti errori, lo ammetto. Avrei dovuto impegnarmi di più, anche questo è vero. Ma in ogni caso lei non mi ama più. E anche di questo mi prendo la responsabilità. Il mio matrimonio è finito, il giornale è finito. La mia vita non ha più alcun senso”.
Scrivere sul diario e sparare al poligono di tiro restano le uniche cose con cui rilassarmi. Sparare è una sfida con me stesso: più è lontano il bersaglio, più riesco a concentrarmi e a non pensare al resto. L’aria aperta mi fa bene, il sibilo dei proiettili quando sfioro il grilletto è un soffio di vento che mi apre la mente. Non potrei farne a meno. Forse sto impazzendo. O magari sono pazzo già da tempo.
E poi leggo, leggo tantissimo. Penso al senso della vita, e a quello della morte. Curioso che per 40 anni, quasi 40 anni, non mi sia mai posto certe domande. “Ormai è inevitabile, non si torna più indietro”. Questa volta non ho dubbi: so bene a cosa mi riferisco.
(12.continua)

Da mafie


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