Il “Miracolo” di non riuscire ad essere umani. Lo spettacolo di Giuseppe Massa al Centro Zo di Catania

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Una Mater mediterranea (Glory Arekekhuegbe) partorisce l’ennesimo migrante, destinato alla morte per acqua. Fuori da una placenta di plastica si materializzano pure – su un contrappunto di stampo bachiano – i precari becchini incaricati di seppellirlo.

Così, in maniera volutamente ossimorica si apre il “Miracolo” scritto e diretto da Giuseppe Massa che la compagnia “Sutta scupa” ha presentato sui legni di Zo per AltreScene, la rassegna di arti sceniche contemporanee. In una atmosfera surreale e di beckettiano déluge umano, i due protagonisti, Bernardo (Gabriele Cicirello), quattro ossa sempre contraddette dalla poderosa mole di Antonio (Paolo Di Piazza), devono trovare una degna sepoltura all’anonimo naufrago. Danno così vita ad una vicenda che, nata dalla cronaca terribile di questi anni, attinge costantemente ad un tragicomico espressionismo, oscilla fra teatro dell’assurdo e leggerezza da comica muta, condensando mirabilmente l’esperienza di Write 2016, la fruttuosa residenza creativa al monastero di Mandanici, in provincia di Messina, di drammaturghi italiani ed europei. Dunque, come sbarazzarsi del cadavere? Forse gettandolo in mare: ma finirebbe in pasto ai pesci e, successivamente, anche nelle loro pance. Bruciandolo? Nemmeno: i pompieri sono “gente precisa” risalirebbero immediatamente ai due e pretenderebbero una nuova sepoltura. Punto e a capo. Sbolognarlo allora nel paese vicino? Impossibile: deve essere inumato nel luogo in cui è stato ritrovato. Non sono disponibili – dopo uno slancio di finta partecipazione – nemmeno le rispettive cappelle di famiglia, già “prenotate” anche per il futuro.

Nardo e Antonio non sanno più che pesci pigliare – a parte il sarago crudo (e puzzolente) con cui (ferinamente) cenano, utilizzando la tomba come un tavolo da pranzo – non trovano mai l’accordo, dondolano, bara in spalla, in un macabro e deforme balletto, l’uno a controbattere senza sosta le argomentazioni dell’altro, esplorando solo l’universo chiuso della loro presunta amicizia e della loro rivalità. All’interno di un rapporto con la morte di natura esclusivamente tecnica – in Nardo ed Antonio non traspare pietà, né condivisione, né compassione: solo la sorda necessità di sbarazzarsi di un compito scomodo – innescano una sarabanda di situazioni rocambolesche e di dialoghi dalla logica tanto buffa quanto inappuntabile che il dialetto palermitano accelera verso una dimensione parossistica culminante con l’impossibile tentativo di resuscitare il morto improvvisandosi artisti neo-melodici.  Infine, disperando, stanchi e disillusi, millantano una definitiva fuga sulla luna prima che il sonno li vinca addossati proprio alla bara, lì dove – nella simbolica scena finale che circoscrive l’atto unico – la Mater dell’incipit, nei panni della Morte, abbraccia anche loro.


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