Mafia, informazione e disinformazione

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Di Marco D’Urso

Nel secondo dopoguerra il primo giornale che si occuperà in maniera sistematica di mafia, denunciandone l’esistenza e gli interessi, sarà L’Ora, quotidiano di Palermo.
Inaugurò un nuovo modo di fare giornalismo d’inchiesta, ponendosi in un rapporto conflittuale con i protagonisti delle inchieste.
Anni difficili, tra minacce, intimidazioni, pressioni indebite. E cronisti uccisi. Una parte del giornalismo in terra di mafia ha lavorato per svelare dinamiche oscure, contrapponendosi alle organizzazioni criminali e costringendo l’informazione nazionale a puntare i riflettori su un mondo criminale colluso con i poteri.
Alcuni giornalisti furono vittime di un metodo rigoroso e perverso: l’eliminazione fisica e la manipolazione delle loro figure nell’immaginario collettivo (di conseguenza, revocando in dubbio il valore del lavoro svolto).
Così gli omicidi potevano diventare suicidi, o gli assassinati erano indicati come vittime di se stessi, morti nel tentativo di compiere un attentato, oppure la causa dell’omicidio veniva fatto risalire a questioni d’onore, di donne e di tradimenti. Di qualcuno non è stato ritrovato neppure il corpo. Volatilizzato.
Nel territorio italiano si contano undici cronisti uccisi, otto dei quali in Sicilia. Per riabilitare la dignità e la memoria di queste persone, e far luce sulle verità sepolte delle loro storie, ci vorranno molti anni e l’ostinazione dei familiari. I depistaggi attuati dalla criminalità organizzata, favoriti da connivenze statali, hanno gettato questi episodi nell’indifferenza generale. Non si doveva sapere che la mafia era diventata un’organizzazione strutturata, tantomeno che fosse mutata da forma di controllo del territorio in una sanguinosa società segreta, alla conquista di potere e denaro.
Sono molti i momenti in cui il giornalismo diventerà protagonista attraverso la narrazione dei fatti cruenti: i delitti eccellenti, il periodo delle stragi, le guerre di mafia che insanguinavano le strade, la controffensiva dello Stato.
Ma in questa storia si rintracciano anche momenti in cui il giornalismo si è dimostrato timido, colluso, subalterno. Senza necessariamente prendere accordi e dichiararsi dalla stessa parte, ha percorso una direzione parallela. È sufficiente evitare di parlare di criminalità, oppure non documentare determinate situazioni per soddisfare gli interessi della mafia. Contro le tante voci che alimentavano la politica antimafia, altre tacevano. Quando non si poteva evitare di dare le notizie, venivano omessi nomi e particolari. L’informazione era scarna, dipendente dal potere delle cosche.
La strategia della disinformazione è stata praticata anche attraverso il controllo di alcune testate e messa in atto principalmente nel periodo della controffensiva dello Stato. Si iniziò a parlare di pentiti infiltrati, di antimafia di facciata. Obiettivo: insinuare dubbi e minare il lavoro di contrasto.
Negli anni Ottanta le testimonianze dei primi collaboratori di giustizia confermarono molte indagini giudiziarie. I magistrati inquirenti uscirono dall’isolamento lavorando in pool. Una parte del giornalismo screditava le informazioni rese dai testimoni di giustizia. Si parlava di mitomani, di persone che si stavano vendicando attraverso l’invenzione di accuse, di premi per gli assassini.
Il ruolo del giornalismo è stato però anche una delle leve del cambiamento. Ha acceso speranze, ha indagato parallelamente alle Procure. Chi ha raccolto la sfida è stata in buona parte la stampa locale. Dopo la chiusura del maxiprocesso il 16 dicembre 1987, le stragi degli anni Novanta, gli arresti dei boss, si inizia a parlare di altro. Nell’attenzione dei media e dell’opinione pubblica l’unico superstite di questo periodo rimane il Processo alla trattativa Stato-mafia.
La mafia sembra sconfitta e l’attenzione viene indirizzata verso altre traiettorie: sia da un punto di vista geografico sia tematico. L’informazione perde quella sensibilità che pure aveva costituito un punto importante della sua funzione.
Oggi, indagare sulle dinamiche mafiose appare quasi come uno spreco di risorse per gli editori e le redazioni. Ad aggravare questo processo c’è lo scarso interesse dei lettori: una sottostima del problema coincide con il “lieve peso” delle notizie sulla mafia (nel biennio 2016-2018 l’informazione antimafia – che vale circa l’1,5 per cento dell’informazione – risulta di un terzo rispetto all’informazione sull’immigrazione, e ancor meno percepita è l’informazione che riguarda i giornalisti minacciati).
Il lavoro di ricerca e di collegamento di fatti episodici, all’interno di una narrazione unica, richiede impegno e sforzo costante. Tra un basso profitto derivante da questo tipo di informazione e una impegnativa produzione di queste inchieste c’è il principio commerciale che grava sulle testate.
Un secondo problema riguarda la ricerca spasmodica di spettacolarità. Le modalità di produrre notizie sono cambiate con l’ingresso del web e degli strumenti digitali. Ciò che conta realmente è la tempestività più che l’approfondimento. A qualsiasi prezzo, anche quello della verità. Con l’avvento dei social network si è diffuso anche un modello di informazione scheletrica. Un’essenzialità che induce soltanto a sapere che è avvenuto un fatto senza conoscerne la sostanza intima.
L’informazione digitale ha cercato di uniformarsi ai tempi compressi della rete, perdendo la capacità di analisi e di ricerca. Si sono affacciati molti problemi sul corretto svolgimento dell’informazione che spiega e indaga la mafia. Anche quest’ultima ha la possibilità di prendere parte al processo informativo-disinformativo, e di utilizzare i mezzi di comunicazione digitale per presentare una realtà deformata. La sfida attuale è stata raccolta soprattutto da giovani generazioni di cronisti, all’interno di una profonda crisi della stampa.
Chi si occupa di mafia è spesso un collaboratore esterno al giornale, senza tutele legali, esposto a qualsiasi tipo di intimidazione. La solitudine di alcuni giornalisti, posti sotto la tutela dello Stato, documenta come il principale obbiettivo della criminalità sia mettere a tacere chi pubblica ciò che deve rimanere segreto. Le nuove intimidazioni, infatti, tendono a prevenire la diffusione di notizie attraverso le querele senza fondamento giuridico e fattuale e quindi temerarie.
Le minacce si sono spostate molto spesso sul piano legale, abusando del diritto. Si querela e si cita in giudizio chiedendo risarcimenti esorbitanti e per ciò stesso in grado di produrre un chilling effect: il giornalista si ferma, non indaga, non scrive più perché il prezzo da pagare rischia di diventare troppo alto. Queste barriere allo svolgimento di una funzione imprescindibile qual è il giornalismo sono frequenti soprattutto in ambito locale.
L’isolamento diventa sia fisico sia mediatico. La stessa informazione si occupa poco dei giornalisti minacciati, cadendo alcune volte nel tranello di celebrare il giornalista-personaggio, ma perdendo di vista il motivo della sua celebrità.

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