Allende, Neruda e i giorni dell’addio 

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“Non si gioca col fuoco. Non tollererò provocazioni irresponsabili. Se qualcuno crede che in Cile un colpo di Stato dell’esercito si svolgerebbe come in altri paesi latino-americani, con un semplice cambio della guardia qui alla Moneda, si sbaglia di grosso. Qui, se l’esercito esce dalla legalità è la guerra civile. È l’Indonesia. Credete che gli operai si lasceranno togliere le industrie? E i contadini le terre? Ci saranno centomila morti, sarà un bagno di sangue. Non tollererò che si giochi con questo”. A parlare così fu Salvador Allende, il 18 ottobre 1971 alla Moneda, nel corso di un’intervista rilasciata al Manifesto e raccolta da Rossana Rossanda. Parole intense, profetiche, premonitrici.
Da diciassette anni, l’11 settembre è diventato sinonimo di terrorismo, orrore, barbarie. Il punto è che è così da quarantacinque, ossia da quel maledetto martedì del 1973 in cui venne bombardato il palazzo presidenziale cileno e deposto con inaudita violenza il presidente regolarmente eletto.
1973, la morte di Allende, probabilmente per mano dei membri dell’esercito golpista, guidati dal generale Augusto Pinochet Ugarte, i quali diedero inizio al massacro che il leader di Unidad Popular preconizzava amaramente due anni prima, come se se lo sentisse che sarebbe andata a finire così, come se sapesse di non poter fare piu di tanto contro la potenza soverchiante degli Stati Uniti e dei loro molteplici interessi economici, a cominciare da quelli delle multinazionali che egli aveva aspramente colpito con le sue nazionalizzazioni, come se sentisse ormai prossima la fine e avvertisse la necessità di consegnare ad un giornale amico una sorta di testamento politico.
D’altronde, l’allora segretario di Stato Kissinger, lo stesso che nel ’74 avrebbe minacciato Aldo Moro, intimandogli di interrompere ogni trattativa con il PCI, lo aveva detto chiaramente: “Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli”.
Erano gli anni dell’Operazione Condor varata dalla CIA e dei colpi di Stato in America Latina (tre anni dopo sarebbe stata la volta di Videla in Argentina), gli anni degli oppositori incarcerati in uno stadio, a Santiago, o in luoghi atroci come il Garage Olimpo e l’ESMA (Escuela de Mecánica de la Armada), a Buenos Aires. Erano gli anni dei voli della morte e delle torture indicibili. Erano anni maledetti, anche se la reazione popolare, in ogni angolo del mondo, non tardò ad arrivare, con le celebri canzoni di Victor Jara e degli Inti Illimani, veri e propri inni alla resistenza, esortazioni alla lotta e alla riscoperta di una dirompente passione civile, grida che squarciarono il velo di ipocrisia e tacito asservimento dei governi e delle istituzioni nei confronti di regimi che mai avrebbero dovuto essere riconosciuti e accettati.
E così, nel ricordare un anniversario tanto infausto, tornano in mente le ultime parole del presidente Allende, pronunciate alla radio all’interno di una Moneda ormai assediata e indifendibile: “È possibile che ci annientino, ma il domani apparterrà al popolo, apparterrà ai lavoratori. L’umanità avanza verso la conquista di una vita migliore. […] Lavoratori della mia patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore”. E ancora: “Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano, ho la certezza che, per lo meno, ci sarà una lezione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia e il tradimento”.
Si concluse così, a sessantacinque anni, l’esistenza di un galantuomo che avrebbe meritato senz’altro una sorte assai diversa ed ebbe inizio un incubo che per i cileni sarebbe durato fino al ’90, con conseguenze spaventose per chiunque osasse ribellarsi all’indecente ferocia dei carnefici imposti dai burattinai esterni che hanno sempre consideraro il Sud America alla stregua del proprio “cortle di casa”, non riconoscendo ad esso alcuna autonomia e dignità.
Il 1973 fu, inoltre, l’anno in cui, il 23 settembre, morì, in circostanze alquanto dubbie, lo straordinario poeta Pablo Neruda, comunista e ovviamente nemico giurato del regime, il quale soffriva già da tempo di un cancro alla prostata ma diciamo che venne “aiutato” ad andarsene. Aveva sessanatanove anni e a noi piace ricordarlo citando alcuni versi, forse i più significativi, del “Canto general”: “Scrivo per il popolo per quanto non possa / leggere la mia poesia con i suoi occhi rurali. / Verrà il momento in cui una riga, l’aria / che sconvolse la mia vita, giungerà alle sue orecchie, / e allora il contadino alzerà gli occhi, / il minatore sorriderà rompendo pietre, / l’operaio si pulirà la fronte, / il pescatore vedrà meglio il bagliore / di un pesce che palpitando gli brucerà le mani, / il meccanico, pulito, appena lavato, pieno / del profumo del sapone guarderà le mie poesie, / e queste gli diranno forse: «E’ stato un compagno». / Questo è sufficiente: questa è la corona che voglio. / Voglio che all’uscita di fabbriche e miniere / stia la mia poesia attaccata alla terra, / all’aria, alla vittoria dell’uomo maltrattato”.
Anche e soprattutto per questo Neruda e Allende furono uccisi, anche e soprattutto per questo vivono ancora.
P.S. Quarant’anni fa, l’8 settembre 1978, se ne andava a settantasette anni il leggendario portiere spagnolo Ricardo Zamora, un campione straordinario e modernissimo che visse sulla propria pelle la tragedia della Guerra civile spagnola e dell’ascesa del franchismo. Merita di essere ricordato per ciò che ha rappresentato in campo e fuori, per la sua arte fra i pali e per la sua travolgente personalità.

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