Pubblicò copertina di Charlie Hebdo. Condannato a 5 mesi di carcere per blasfemia direttore editoriale Cumhuriyet. E Amnesty denuncia: Ankara responsabile di violazioni diritti umani a Afrin

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La giustizia turca ancora una volta si accanisce contro la stampa libera. Una condanna a 5 mesi è stata emessa nei confronti dell’ex direttore esecutivo di Cumhuriyet,   Oğuz Güven, per aver  pubblicato sull’edizione online una vignetta di Charlie Hebdo. L’accusa: blasfemia.
Güven, da responsabile del sito web dello storico quotidiano di opposizione, aveva autorizzato la pubblicazione di un articolo sulla manifestazione delle FEMEN contro l’arresto delle giornaliste curde Hikmet Çetinkaya e Ceyda Karan. Le attiviste, nella foto che corredava il pezzo,  avevano in mano un cartello con la copertina del settimanale satirico francese.
La sentenza è al momento sospesa in attesa dell’appello presentato dai legali del giornalista.
Mentre la situazione per la libertà di stampa in Turchia non sembra migliorare, sono almeno 170 gli operatori dell’infornazione in carcere, Amnesty International accusa le forze di sicurezza turche dispiegate ad Afrin, in Siria, di aver permesso ai gruppi locali alleati di commettere gravi violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione civile.
Nell’area settentrionale del Kurdistan siriano, dove dallo scorso gennaio è presente l’esercito di Ankara, Amnesty ha condotto un’approfondita indagine che ha rilevato gli abusi perpetrati e le responsabilità turche.
Arresti arbitrari, sparizioni forzate, confische e saccheggi di proprietà private si sono susseguiti negli ultimi mesi nell’impunità assoluta.
L’organizzazione accusa l’esercito di Erdogan di aver “chiuso un occhio” e di aver preso parte attiva all’occupazione di istituti scolastici, impedendo l’istruzione a migliaia di bambini.
Dalle testimonianze raccolte dagli attivisti, negli ultimi otto mesi l’accesso all’istruzione è praticamente impossibile ad Afrin. Da marzo ha funzionato una sola scuola mentre l’università è stata saccheggiata e distrutta.
Gli intervistati, si legge nel rapporto, hanno indicato i gruppi armati filo-turchi Ferqa 55, Jabha al-Shamiye, Faylaq al-Sham, Sultan Mourad e Ahrar al-Sharqiye quali responsabili di gravi violazioni dei diritti umani e rapimenti di civili a scopo di riscatto o di punizione per aver preteso la restituzione delle loro proprietà. Altri sono stati picchiati e tenuti prigionieri per l’insussistente accusa di far parte delle Ypg el Pyd.
Secondo le fonti della ong sarebbero almeno 86 i casi di detenzioni arbitrarie, torture ed esecuzioni extragiudiziali.
Una sfollata di Afrin ha raccontato  che suo zio è stato rapito da un gruppo armato filo-turco dopo essere rientrato al suo villaggio.
“Si rifiutano di dire alla moglie dove l’abbiano portato” ha riferito la donna che ha neganto contatti tra l’uomo e le Ypg, accusa mossa dai miliziani.
Amnesty riferisce anche di alcune case “occupate” da famiglie sfollate della provincia centrale di Homs e della Ghouta orientale.
“Abbiamo ascoltato racconti strazianti di persone arrestate, torturate o fatte sparire dai gruppi armati filo-turchi – ha dichiarato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty – che cntinuano a devastare la vita della popolazione civile senza essere fermati dalle forze regolari. Chiediamo alla Siria e alle Ypg di rispettare la libertà di movimento dei civili e di favorire il rientro volontario e
in condizioni di sicurezza degli sfollati. Le autorità siriane devono velocizzare l’evacuazione per ragioni mediche degli ammalati e dei feriti che non possono ricevere cure mediche adeguate nella regione di al-Shahba”.
L’offensiva militare e l’occupazione hanno acuito la sofferenza degli abitanti di Afrin, che già da anni pagavano le conseguenze di un sanguinoso conflitto.
Secondo la Maslouf laTurchia, in quanto potenza occupante, dovrebbe garantire la sicurezza della popolazione curda e il mantenimento della legge e dell’ordine, cosa in cui finora le sue forze armate hanno abbondantemente fallito.
”Le autorità di Ankara non possono abdicare alle loro responsabilità facendo fare il lavoro sporco ai gruppi armati locali” è l’accusa di Amnesty che attraverso le parole di Maalouf sollecita la Turchia a prendere tutte le misure necessarie affinché i bambini possano tornare a scuola e l’università sia rapidamente ricostruita e possa riprendere i corsi prima possibile.
La situazione nell’area di Afrin, terreno di scontro tra curdi e siriani, è precipitata lo scorso gennaio quanto la Turchia ha affiancato le sue truppe a quelle dei gruppi armati di Damasco per lanciare un’offensiva militare contro le Unità di difesa del popolo (Ypg), la forza militare dell’Amministrazione autonoma curda diretta dal Partito dell’unione democratica (Pyd).
Dopo tre mesi, l’esercito turco e gli alleati locali hanno preso il controllo della città e delle zone circostanti costringendo migliaia di persone a fuggire e a cercare riparo nel distretto di al-Shahba, dove sono tuttora rifugiate e vivono in condizioni estreme.
Tra maggio e luglio Amnesty International ha intervistato 32 persone, alcune ancora residenti ad Afrin e altre fuggite all’estero o in altre zone della Siria.
Il rapporto di Amnesty International è stato trasmesso lo scorso 16 luglio al governo turco con una sintesi delle sue conclusioni preliminari e con la richiesta di chiarimenti. Una risposta è arrivata il 25 luglio. Come era prevedibile Ankara non si è espressa nel merito delle contestazioni. Anzi, ha messo in dubbio l’imparzialità della ong e ha contestato l’uso di espressioni quali ‘regione di al-Shahba’ e ‘Amministrazione autonoma’’.
Ma l’inchiesta di Amnesty non si ferma. E noi la sosteniamo illuminando le loro ricerche e riportando le loro denunce che non possono e non devono restare inascoltate dalla comunità internazionale.

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