Ruggieri e Bartz. Quando l’interplay funziona

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«Gary Bartz è un’autentica leggenda vivente del jazz. Da circa quarant’anni è un punto di riferimento per i tutti i musicisti, non solo sassofonisti, che sono venuti dopo di lui. Proprio qualche settimana fa, il 19 aprile, ha ricevuto un premio alla carriera presso la Howard University, il “Benny Golson Award” ma aveva già ricevuto il Grammy Award ben due volte», dice ad Articolo 21 Riccardo Ruggieri, pianista e compositore torinese che lunedì 30 aprile, nell’ambito del Torino Jazz Festival (rassegna diretta dal trombettista Giorgio Li Calzi e che ha ottenuto gran successo di critica e di pubblico con oltre 22mila spettatori) si è esibito con il suo quartetto insieme al sassofonista americano Gary Bartz presso le Officine Grandi Riparazioni (Ogr), in un concerto memorabile.
Con Ruggieri e Bartz, sul palco, due eccellenti musicisti italiani, Massimo Baldioli al sax tenore e Alessandro Maiorino al contrabbasso e, a sostenere ritmicamente il gruppo, Gregory Hutchinson, uno dei batteristi più apprezzati del panorama mondiale.
«Gary è uno dei miei musicisti preferiti, lo ascoltai le prime volte quando avevo circa vent’anni nei dischi di McCoy Tyner, uno dei musicisti che amo di più. Adoravo il fatto che suonasse l’alto come un tenore; “coltraniano” nell’intenzione, ma senza emularlo. C’è un album in particolare di Tyner che è un capolavoro assoluto, “Expansions”, dove Gary suona a fianco di Wayne Shorter e Woody Shaw.
Gary racconta di aver cominciato la sua carriera suonando nel club di suo padre – prosegue Ruggieri –, c’era una ritmica “residente” con John Hicks al piano, Joe Chambers alla batteria…non ricordo il bassista. Suonava con loro e ogni tanto chiamavano dei musicisti ospiti come i trombettisti Blue Mitchell e Charles Tolliver. Gli ingaggi importanti arrivarono negli anni 60 con i gruppi di Charles Mingus, Max Roach e Art Blakey, da allora le sue collaborazioni sono state tantissime. Alla fine degli anni 60 è nato il sodalizio con McCoy Tyner, che dura tuttora. Nel ‘70 è stato chiamato da Miles Davis. Nel famoso concerto nell’isola di Wight, sempre con Miles, insieme a Jarrett, Corea, Holland e Moreira, c’era Gary. Nel ‘69 ha fondato il gruppo “Ntu Troop”, una band pazzesca, molto originale, dove ha mescolato soul, funk, musica folk africana, hard bop e jazz d’avanguardia. Da allora, ha continuato a guidare gruppi a suo nome e ad avere collaborazioni importanti».

Lei ha detto che Gary Bartz è «un musicista straordinario, di grandissima sensibilità, che suona in una dimensione di tale sincerità ed energia da rendere la musica profondamente toccante».
«La sincerità è la cosa che mi colpisce di più in un musicista, ed è quella “cosa” senza la quale tutto ciò che suoni perde di senso. Per me un musicista è sincero quando riesce a suonare qualcosa di veramente aderente a se stesso, dimenticandosi di come vorrebbe essere o di come gli piacerebbe suonare, senza voler dimostrare quanto è bravo. È sincero quando riesce a suonare solo le note che lo rappresentano e quando ha cercato e trovato un suo suono naturale, “inevitabile”, in cui si riconosce. In questi giorni ci siamo ritrovati a parlare proprio di questo con Gary. Lui mi ha fatto notare una cosa che condivido pienamente: ognuno di noi ha una percezione personale di quello che ascolta; ciò che siamo, non solo il nostro talento musicale, ci fa percepire la musica attraverso una lente che è unica. È naturale, quindi, suonando, e nel momento in cui cerchiamo di esprimerci, che ognuno di noi possa attingere a una “fonte” che è unica, diversa da quella di tutti gli altri. Se si riesce a non interferire con questo meccanismo, e quindi a non forzare la nostra natura, la musica diventa inevitabilmente personale».
Cosa s’intende dire quando si parla di un musicista che ha «un suo suono»?
«Il suono è la prima cosa. È la tua voce. È importante cercare il proprio suono, perché un suono aderente a te stesso rende credibile quello che suoni e facilita la comunicazione con chi ti ascolta. Può sembrare strano, ma anche i pianisti hanno un loro suono, nonostante il meccanismo per ottenerlo sia complicato e passi dal gesto della mano a un tasto a una serie di leve ea un martelletto che percuote una corda».
Lei ha un suo suono? E Bartz?
«Non spetterebbe a me dirlo, ma credo di essere riconoscibile. Bartz ha un suo suono riconoscibile, sincero ed espressivo. Mi piace molto».
Se lei dovesse definire cos’è il jazz?
«Oggi con la parola jazz si può intendere tutto e il contrario di tutto, quindi è complicato trovare una definizione. Posso dirti qual è la caratteristica che può farmi dire che una musica è “jazz”. Parlo dello swing. Che però è un’altra cosa altrettanto difficile da definire. Lo swing è un modo particolare di “stare sul tempo”, di esprimersi ritmicamente, ed è strettamente legato al rapporto con il corpo. È una questione molto fisica. Se un musicista “ha swing” avverti una spinta vitale che aggiunge significato alla musica. Non necessariamente dev’essere quello meraviglioso di Errol Garner, Dizzy Gillespie o Ray Brown, per me c’è swing anche nei dischi di Coltrane della metà degli anni 60, dove nessuno “andava più in quattro” (s’intende quando il contrabbasso suona una linea regolare di note della durata di un quarto – se la battuta è di quattro quarti, suonerà quattro note, ndr), ma dove nel risultato generale si può percepire la stessa tensione, la stessa spinta propulsiva. Parlando con Gary di musica ho scoperto che non ama la parola, “jazz”. A lui piace che si parli semplicemente di “musica”. Forse non ha tutti i torti».

Com’è iniziata la sua carriera Ruggieri?
«Ho avuto il primo ingaggio come pianista nel 1988. Sono molto legato al ricordo di quella serata perché al sassofono c’era il grande Larry Nocella che considero uno degli incontri artistici più importanti della mia vita. Al basso c’era Piero Cresto-Dina e alla batteria Maurizio Cuccuini. Conoscevo Maurizio dal 1985, con lui ho frequentato le prime jam session e con lui sono partito per l’Olanda nel ’90, dove abbiamo conosciuto il contrabbassista Alessandro Maiorino e tutti e tre siamo entrati a far parte del quartetto del sassofonista argentino Leandro Guffanti. Da quel quartetto, nacque il trio con Alessandro e il “Cuccu”. Siamo cresciuti insieme e siamo diventati amici fraterni. Grazie a loro ho imparato molto. Il trio è ancora attivo e da allora abbiamo suonato sia come formazione autonoma, sia come ritmica di quartetti e quintetti con solisti quali, Steve Grossman, Rachel Gould e lo stesso Gary Bartz. Ovviamente, ognuno di noi ha avuto le sue collaborazioni e suona in gruppi diversi».

Cos’è l’interplay?
«L’interplay è l’interazione che può scaturire tra i musicisti attraverso il reciproco ascolto. Per me è indispensabile. La capacità di ascoltare però è una questione caratteriale. È un atteggiamento di disponibilità che assumi verso l’altro senza neanche porti il problema di farlo. Sono fortunato perché per me l’ascolto degli altri è una necessità. Se non c’è ascolto reciproco, mi annoio, non ho idee. Mi piace invece suonare con i musicisti che “sono” così e che mettono la musica davanti al proprio ego, come Gary, Massimo, Alessandro, Greg e Luigi Bonafede che è venuto a suonare la batteria nel piccolo tour che abbiamo appena concluso facendo tappa a Milano, Bologna, Bolzano e Venezia. Sono tutti musicisti straordinari».
Come ha incontrato Bartz?
«Abbiamo già suonato insieme in passato. Fui io a cercarlo dopo che accadde una coincidenza incredibile. Qualche anno fa stavo curiosando sul suo sito internet e “cliccai” per ascoltare un suo brano che non conoscevo e che s’intitola “Soprano story”. Dalle casse del computer sentii arrivare le note di un mio pezzo, un brano che avevo dedicato a Larry Nocella e Steve Grossman “Song for Larry and Steve”. Rimasi confuso. Poi, capii che Gary e io avevamo veramente composto, in maniera del tutto indipendente e casuale, due brani con la stessa melodia. A onore del vero sono identiche solo le prime 16 misure; la sezione di mezzo è diversa, ma sono proprio quelle che caratterizzano i due brani dal punto di vista melodico. Non riuscii a tenermi dentro questa cosa che aveva dell’incredibile e gli scrissi, mandandogli una registrazione del mio pezzo, dicendogli che ero un suo fan e che l’aver scritto un brano con la stessa idea melodica era un’affinità. In fondo, senza conoscerci, in due momenti diversi e geograficamente distanti, abbiamo voluto raggiungere lo stesso “luogo”. Gli proposi di suonare insieme. Lui rispose, “cos’hai in mente?”, io dissi, “potresti venire a suonare, come ospite, nel mio quartetto”. Da allora abbiamo suonato insieme in diverse occasioni. Credo che quest’affinità esista davvero. Durante il soundcheck a Torino, nel pomeriggio del giorno del concerto, per provare il pianoforte ho suonato un altro mio brano che non era “in scaletta”. È un brano che si suona rubato, cioè senza un tempo scandito. È dedicato al grande sassofonista Massimo Urbani. Alessandro il brano già lo conosceva. Gary e Greg si sono uniti dopo qualche secondo, suonandolo magnificamente. Appena finito, Gary mi dice: “Questa stasera apriamo con questo!”».


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