Con il volere di Dio e di….Bernardo Provenzano

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di Francesco Petruzzella

Per anni, inquirenti, studiosi e analisti sono andati alla ricerca del “codice Provenzano”: della formula – cioè – che avrebbe dovuto svelare i segreti di quel particolare fraseggio ricorrente negli scritti del capomafia corleonese, in cui veniva invocato ora Dio, ora la sua benedizione, ora la sua misericordia.
«Io con il volere di Dio – scrive il capomafia a Luigi Ilardo – voglio essere un servitore, comandantemi e sé possibile con calma e riservatezza vediamo di andare avandi»
Poche parole, legate da una grammatica improbabile e alchemica, che hanno fatto versare fiumi di inchiostro, seminato dubbi e alimentato accesi dibattiti, che hanno spinto più d’un autorevole commentatore a interrogarsi su quella singolare forma di linguaggio ieratico che il capomafia ha per lungo tempo utilizzato  nei suoi pizzini, per rappresentarsi ai suoi complici e sodali quale guida implacabile, ma devota e timorata di Dio.
Questi piccoli pezzi di carta – gli investigatori ne contano 72 nel solo periodo compreso tra il 2001 e il 2004 – costituiscono la summa retorica del capomafia di Corleone; arrotolati con cura, sigillati con nastro adesivo e passati di mano in mano seguendo una precisa e rigorosa catena gerarchica, contengono ordini, suggerimenti e consigli ogni volta diversi. Tuttavia, ogni pizzino è simile ad un altro nella costruzione e nello sviluppo semantico: ogni scritto esordisce con un’invocazione, un’esortazione o un richiamo a Dio, a cui segue l’argomentazione d’interesse e, infine, la formula di chiusura, un saluto o un augurio, il più delle volte allargato alla famiglia del destinatario.
«Poi mi dici che con il volere di Dio mi spiegherai di presenza gli accordi fatti con il Dottore – scrive ancora Provenzano a Ilardo – In quando a vederci, con il volere di Dio, aspettiamo il momento opportuno… Argomento, Per quello che si può, siamo tutti addisposizione luno con l’alreo, io spero che faremo sempre con il volere di Dio prima questo puntamento con G. e di tutto il resto, con il volere di Dio, ne parleremo di presenza. Grazie di tutto».
Non meno ispirato, Provenzano si rivolge ad Antonino Rotolo, uomo d’onore e capo della famiglia mafiosa di Pagliarelli, dolendosi dell’impossibilità di poterlo incontrare personalmente: «Carissimo, ci fosse bisogno, che ci dovessimo vedere di presenza per commentare alcune cose. Mà, non potendolo fare di presenza, ci dobbiamo limitare ed accontentare della Divina Provvidenza del mezzo che ci permette. Così con il volere di Dio ho risposto alla vostra cara».
Dopo la sua cattura, inquirenti e magistrati si sono perfino cimentati in un tentativo di esegesi della Bibbia personale che il capomafia teneva sul comodino, ritrovata zeppa di note e appunti nel covo di Montagna dei Cavalli, senza tuttavia che mai si riuscisse a dare di quelle annotazioni e di quei segni vergati sulle pagine sacre, una spiegazione diversa da quella, banale, secondo cui si trattava di semplici pro-memoria utili all’interpretazione dei passi più complessi delle Scritture.
Così, invece di sciogliersi in poche battute, il problema si complica enormemente e sollecita nuovi dubbi, nuove domande: cosa sono, cosa rappresentano queste invocazioni, questi abbandoni alla volontà dell’Onnipotente? Davvero il Dio degli uomini può essere anche il Dio di un assassino? Davvero anche i carnefici vivono la medesima prospettiva esistenziale e religiosa delle loro vittime?
Le invocazioni al Divino non sono certo un’esclusiva di Provenzano: se “u zu’ Binnu” invocava il Signore e leggeva la Bibbia, anche Michele Greco “il Papa” amava citare versi del Vangelo e tenere le Sacre Scritture sul comodino di casa; invece Leoluca Bagarella, cognato di Riina e killer del gruppo corleonese, Dio lo invocava poco prima di eseguire omicidi, esclamando: «Dio lo sa che sono loro che vogliono farsi uccidere e che io non ho colpa». E come non ricordare lo stupore degli agenti di Polizia, all’atto dell’irruzione nel covo del capomafia Pietro Aglieri,  dopo aver scoperto una cappella appositamente allestita per il latitante, ornata di paramenti sacri, presso cui il carmelitano Frittita celebrava messa e somministrava comunione; le cronache raccontano anche di un disinvolto Luciano Leggio, che da ergastolano spiegava ai cronisti dell’ANSA: «Prego ogni sera prima di addormentarmi … Mi raccomando sempre al padreterno (così chiamo Dio) perché mi aiuti a migliorarmi e mi mantenga disponibile verso tutto e tutti; dopo dico un requiem per i miei defunti e prego perché aiuti i miei cari».
Sono tanti, ancora, gli aneddoti e le storie, tutte simili le une alle altre, in cui mafiosi devotissimi invocano con fervore Dio o la Santa Vergine, al punto da sospingerci a chiederci come possa conciliarsi, come possa ritenersi compatibile questo forte sentire religioso manifestato dagli uomini di mafia, con l’esercizio della violenza e della sopraffazione, con la dottrina di morte di cui essi sono portatori.
Il Dio che noi conosciamo è amore e gratuità: Ubi Caritas et amor, deus ibi est, secondo gli insegnamenti evangelici (1 Giovanni, 4, 8). E’ un Dio – per dirla con il teologo Alberto Maggi – che non domina ma che si mette al servizio degli uomini: e, dunque, nessuno tra gli uomini potrà pensare di dominare altri uomini e, tantomeno, farlo in suo nome. E’ un Dio al tempo stesso padre e madre – secondo gli insegnamenti di Papa Luciani – che perdona, comprende, accoglie, che è misericordioso e caritatevole.
Basta questo, per comprendere che il Dio di Provenzano non è e non potrà mai essere il Dio del Vangelo e delle Sacre Scritture. Piuttosto, è un simulacro vuoto, costruito all’insegna della discrezionalità etica, attraverso schemi di comportamento tribali che mutuano concezioni e modelli della peggiore cultura meridionale, quella del feudo, della robba e dei padroni.
E’ un Dio figlio della cultura del favore, di quella cultura che perpetua la dipendenza dalle catene del potere. E’ un Dio che impone cieca obbedienza, invece di contribuire a far crescere desiderio di emancipazione e consapevolezza dei diritti. E’ un Dio creato su misura per giustificare l’accumulazione parassitaria e negare dignità e libertà ad ogni uomo.
E’ un Dio che Provenzano e altri mafiosi prima di lui, hanno pensato di poter utilizzare per costruire l’identità forte e carismatica del capo, secondo uno stile di leadership che richiede il riconoscimento e la legittimazione di un potere assoluto e privo di controllo, sacro e ispirato dal Divino, o quanto meno in linea con la sua volontà. Un Dio falso e bugiardo, che però è tornato e torna utile proprio in un mondo – quello delle mafie – in cui i rituali dell’interazione, i simboli, i segni e i gesti assumono un peso e un rilievo di altissimo valore. Lo aveva capito, primo tra tutti, Giovanni Falcone, secondo il quale «l’inter­pretazione dei segni, dei gesti, dei messaggi e dei silenzi costituisce una delle attività principali dell’uomo d’onore […]. Tutto è messaggio, tutto è carico di significato nel mondo di Cosa Nostra, non esistono particolari trascurabili».
Alla Chiesa e ai suoi uomini più coraggiosi, resta oggi il difficile compito di contrastare – dopo averla avallata e giustificata per decenni, soprattutto nelle aree del Mezzogiorno d’Italia – questa blasfema rielaborazione teologica, che nel silenzio di una gerarchia ecclesiastica spesso indifferente, talvolta complice, ha consentito a Provenzano e a tanti come lui, di invocare impunemente “il volere di Dio” in favore del popolo delle mafie.

Da mafie

 


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