Agente provocatore o infiltrato per contrastare la corruzione?

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L’infiltrato è colui che agisce “sotto copertura” in un’indagine giudiziaria relativa a un delitto che è già stato ideato e sta per essere commesso. L’agente infiltrato in sostanza si limita a svelare un’intenzione criminosa già esistente. Nel nostro ordinamento giuridico le operazioni sotto copertura sono da tempo oggetto di un’apposita normativa, limitata ad alcuni delitti (ad es. traffico di stupefacenti), volta a escludere la responsabilità penale dell’infiltrato, in base alla giustificazione che il suo concorso nei fatti sia stato posto in essere per fini investigativi espressamente autorizzati dall’autorità giudiziaria e di polizia. In questo senso, e con tali specifiche modalità, sono favorevole all’opportunità di estendere questa tecnica investigativa ai delitti in materia di corruzione. Molto più problematico sarebbe, invece, il ricorso al c.d. “agente provocatore”. L’agente provocatore è colui che, sempre sotto copertura, ha il compito di condurre una persona o un gruppo di persone a porre in essere un reato.

Con un esempio pratico si comprenderà meglio la differenza. Quando un falso imprenditore propone ad un pubblico amministratore una tangente sta di fatto creando artificialmente un reato che probabilmente non sarebbe stato commesso in assenza della “provocazione”. L’agente provocatore, dunque, è figura ben diversa da quella dell’infiltrato poiché, mentre l’agente provocatore determina il reato attraverso una messa in scena, l’infiltrato si limita a porre in evidenza un proposito criminoso già esistente. Per cui per la perseguibilità dei reati contro la pubblica amministrazione, e in particolare quelli di corruzione, sarebbe consigliabile l’uso degli agenti infiltrati poiché il ricorso all’agente provocatore allorché si accerti che il reato non sarebbe stato commesso senza la provocazione potrebbe portare facilmente all’assoluzione dell’imputato in sede processuale. Non dimentichiamoci che diritto e processo penale hanno lo scopo di punire chi che ha commesso un reato e cioè un fatto tipico, antigiuridico e colpevole e non chi, a seguito di “provocazione”, si mostri propenso a commettere il reato medesimo.  Nel nostro ordinamento penale è la “notitia criminis” a dare inizio alle indagini e tale presupposto si fonda sull’esistenza di un fatto realmente accaduto e contrario alla legge penale. Tra i due istituti in esame preferisco quello dell’infiltrato in quanto l’agente provocatore si potrebbe facilmente prestare ad abusi che poi alla fine potrebbero giocare in favore dell’imputato.

Vincenzo Musacchio, Giurista e già docente di diritto penale presso l’Alta Scuola di Formazione della Presidenza del Consiglio in Roma


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