L’impossibilità di dimenticare. “La cassa oblunga” di E.A. Poe alla Pergola di Firenze

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Sempre in prossimità della mezzanotte, pochi minuti prima che il confine fra sonno e veglia perda consistenza permettendo ai due stati della mente di (con)fondersi, nella penombra in cui riverberi di cinabro scavano nicchie insidiose e allusive, prende vita la voce stessa di E.A. Poe. Una voce che soltanto il lettore dei suoi racconti riconosce immediatamente. Quel respiro modulato, quel procedere progressivo, minuzioso, all’interno di una vicenda, partendo spesso da note sottilmente ironiche e sommesse.

In questo terzo appuntamento, si viene condotti dentro la storia più tragica che macabra narrata in La cassa oblunga. Le parole dell’Io anonimo che quasi sempre apre il racconto, un Fabio Baronti ancor più accurato del solito, animato da una tensione poetica controllata che gli permette di rendere visibili – in ogni pausa, in ogni curvatura della voce – le impronte digitali di Poe, s’innalzano girando nelle elaborate volute di un’istruttoria dettata da curiosità e oziosa attesa. Le congetture dell’uomo si formano a poco a poco, sollecitate dai continui ritardi nella partenza della nave Independence e dalla scoperta che anche il suo vecchio amico Cornelius Wyatt si trova in procinto di imbarcarsi per New York con moglie, sorella e una misteriosa cassa oblunga di circa 6 piedi di lunghezza per 2,5 piedi di larghezza recante sul coperchio una maleodorante scritta catramata. Il Narratore ipotizza che la cassa, considerate dimensioni e forma, possa contenere una copia preziosa dell’Ultima cena di Leonardo. Ben più lo inquietano la terza cabina inspiegabilmente prenotata da Cornelius vista l’assenza di domestici, e l’evasività del Capitano circa gli indugi che, giorno dopo giorno, trattengono la nave in porto.

Scorre sottotraccia in questa prima parte la sottile meditazione di Poe sulla deduzione razionale, basata su un primo e più ovvio livello di analisi dei fenomeni, destinata a sgretolarsi miseramente nell’impatto con l’infinita gamma del possibile. Sotto questo aspetto Poe mostra posizioni vicine al coevo movimento trascendentalista di Emerson.

a cura di Sabrina Tinalli
costumi e maschere Giancarlo Mancini
musiche Vanni Cassori
con Marcello Allegrini, Fabio Baronti, Luca Cartocci, Sabrina Tinalli, Vettori
produzione Fondazione Teatro della Toscana
in collaborazione con La Compagnia delle Seggiole

Terza serie
La cassa oblunga
25-27 gennaio
5-7 aprile

Quarta serie
Hop-Frog, L’angelo del bizzarro, William Wilson
8-10 febbraio
22-24 febbraio
19-21 aprile

 

Edgar Allan Poe

Durante il viaggio gli enigmi si infittiscono e il normale scorrere del tempo incontra continui ostacoli prodotti dall’abnormità apparente dei comportamenti di Cornelius e della sua famiglia. Questo nucleo diventa una specie di corpo opaco contro cui si infrangono tutti i canoni del microcosmo radunatosi sull’Independence.

L’uomo appare luttuosamente murato in sé stesso, la moglie rivela così una figura così insignificante e un così scarso intelletto da sorprendere chiunque fosse a conoscenza dell’inclinazione naturale di Wyatt alla Bellezza. In più, la donna ogni sera lascia la stanza del marito per occupare la famosa terza cabina vuota.

Uscendo dalla semioscurità di un palco, la seconda Narratrice (Sabrina Tinalli) ci descrive, con timore e con una partecipazione misuratemente accorata, le manovre notturne di Cornelius. Dai suoni provenienti dalla sua cabina si intuisce che egli ogni sera, servendosi di uno scalpello e di un martello rivestito per attutire il rumore, apre la cassa oblunga e resta a lungo in contemplazione, per poi richiuderla prima del sorgere del sole.

E’ la tempesta biblica che travolge la nave a sciogliere ogni mistero. La maggior parte dei passeggeri trova scampo nella scialuppa più grande, mentre sulla piccola salgono i protagonisti del racconto, tranne Wyatt (un disperato, struggente Luca Cartocci in cilindro vedovile). La presunta moglie di Cornelius (Silvia Vettori), in preda ad allucinazione e smarrimento afferma di essere la cameriera della Signora e il Capitano rivela alcuni antefatti essenziali e ci fa vivere l’ultimo atto del dramma attraverso i suoi occhi.

Marcello Allegrini, interpretando il Comandante dell’Independence, si piega umanamente sul dolore di Wyatt, comprende e spiega l’angoscia che ha spinto l’uomo a cospargere di sale il corpo della moglie defunta per rallentarne la decomposizione, per trattenere ancora un po’ l’immagine di quella bellezza così amata, e ad aprire ogni notte la cassa per poterla vedere, trattenersi con lei, parlarle forse, immaginarla viva. Piangerne la scomparsa. Piangere sulla propria solitudine.

La voce del Capitano Hardy diventa liquida, si raccoglie in pozze di riflessi umidi, sosta ed esita davanti alle urla e alle preghiere ormai lontane di Cornelius: La cassa, vi dico, capitano Hardy! Voi non potete impedirmi di prenderla. Pesa così poco, quasi nulla. Fatelo per la salvezza della vostra anima, vi prego, capitano…

Wyatt, trascinata la cassa sul ponte, si lega ad essa con una corda e si getta in mare.

Come se ascoltassimo la storia per la prima volta (ed è questo il piccolo miracolo compiuto dalla Compagnia delle Seggiole) restiamo inebetiti mentre Cornelius trova la morte, avvinto alla preziosa cassa, respirando l’acqua salmastra fino a riempirsene i polmoni e dimenticando l’eco del grido dei gabbiani.


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