Trump, Gerusalemme e l’ira della collera di Hamas

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Il presidente Donald Trump dichiara che gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme “capitale di Israele”, e annuncia il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv alla “Città Santa”, così come aveva anticipato in campagna elettorale. Lo fa quando ricorrono i trent’anni di fondazione di Hamas, braccio combattente dei Fratelli Musulmani in Palestina. E a cento anni – novembre 1917 – dalla dichiarazione di Balfour, con la quale il governo britannico favoriva l’istituzione in Palestina di una casa nazionale per la gente ebraica.

La conseguenza è che scatta subito il “gioco delle parti”. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, annuncia che è l’ora della collera e intima un’intifada globale. Già oggi manifestazioni si sono susseguite in tutta la Cisgiordania, ma anche in Tunisia e Pakistan. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu vede come un successo personale “Gerusalemme capitale indivisibile dello Stato di Israele”. Sull’altro fronte, Abu Mazen, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, afferma che “Gerusalemme è capitale indivisibile dello stato palestinese”. Ma i due hanno fatto i conti senza l’oste, perché Trump non ha – almeno finora – parlato di indivisibilità. Il presidente turco Erdogan urla che il progetto di Trump è una “linea rossa per i musulmani” non superabile, proprio lui che la linea rossa l’ha superata da un pezzo, prima nel rapporto ambiguo con Daesh, poi nell’intolleranza totale verso qualsiasi voce di dissenso, arrestando migliaia di insegnanti, intellettuali, giornalisti. Re Salman parla di una “flagrante provocazione per i musulmani in tutto il mondo”. ma da che pulpito viene la predica! Quando mai l’Arabia Saudita si è interessata dei palestinesi? E – diciamola tutta – la Casa Saudita, che non ha rifiutato il denaro elargito recentemente da Trump, è ben contenta di andare a braccetto con Israele in funzione anti-Iran. L’Unione Europea, attraverso le parole del capo della diplomazia Federica Mogherini, avverte di possibili “gravi ripercussioni in vaste aree del mondo” e sottolinea che “la violenza potrebbe rivelarsi controproducente”.

D’accordo essere diplomatici, ma una tale genericità di concetti fa pensare che chi parla non sappia neanche dove Gerusalemme è situata. Così come il ministro degli Esteri italiano Angelino Alfano: “Non si può retrocedere dalla soluzione dei due stati”. Ma ha mai visto una cartina? Qualcuno ha capito che il territorio palestinese è ormai una striscia piccolissima, assediata dagli insediamenti israeliani e ridotta ad un gruviera dai check point? Eppure la Risoluzione Onu del ’47 che ha sancito la nascita dello Stato di Israele, aveva disposto che la terra fosse divisa equamente fra i due stati. Non è così e questo è uno dei motivi di contrapposizione. Poi ci sono le altre due questioni irrisolte: il ritorno dei profughi e, appunto, lo status di Gerusalemme. Qualcuno obietta che per i palestinesi non sarà più possibile tornare, perché ormai sono quadruplicati di numero – in Libano siamo alla quarta generazione -, ma provate ad andare a dirlo alla popolazione del campo di Aida, alle porte di Betlemme, che ti accoglie con un grande arco sormontato da una chiave, quella che apre le porte di casa, perché “non ci sarà pace senza ritorno”. E quella casa si chiama Palestina.

E poi Gerusalemme, la città santa tra le sante. In arabo: القودس  che significa proprio “la Santa”. E infatti quella terra viene chiamata “Terra Santa”, perché è santa per tutte e tre le religioni abramitiche. Per gli ebrei, perché c’è il Muro Occidentale o Kotel (nella vulgata, conosciuto come “Muro del pianto”), che è ciò che resta del Secondo Tempio (ricostruzione del primo, il Tempio di Salomone, distrutto dal babilonese  Nabucodonosor II nel 586 a.C.) distrutto nel 70 d.C. dal generale romano Tito. Era all’epoca il centro spirituale e culturale del Giudaismo. Significa che gli ebrei pregano lì almeno da duemila anni. E il tempio continuava verso il Monte omonimo, dove oggi sorge la Spianata delle Moschee. È santa per i cristiani, perché è la terra dove è nato, vissuto, ha predicato, è morto in croce e risorto, Gesù Cristo che – ricordiamo – era ebreo, quindi predicava nel tempio. È santa per i musulmani perché da quel Monte il profeta Muhammad, accompagnato da un angelo, avrebbe sorvolato la voragine infernale, assistendo alle afflizioni dell’umanità, e poi avrebbe visitato i sette Cieli, incontrando i profeti che l’avevano preceduto, fino ad essere ammesso al cospetto di Dio, per poi tornare sulla terra. Sulla Spianata sorgono tre imponenti edifici risalenti al periodo omayyade: la moschea di al-Aqsa, la cupola della Roccia e la cupola della Catena, assieme a quattro minareti. Il Monte del Tempio viene anche identificato come il Monte Moriah, citato nell’Antico Testamento come il luogo del sacrificio di Isacco. Ma Abramo era anche padre di Ismaele, suo primogenito avuto dalla schiava Agar. La tradizione islamica parla del sacrificio di Ismaele. Sia quel che sia, Dio fermò Abramo e ad essere sacrificato fu un animale. Ecco perché la parte est di Gerusalemme è uno dei luoghi religiosi più contesi al mondo, Qui dal ’48 si respira tensione, a volte si manifesta apertamente, altre è coperta da uno stato di calma apparente, ma basta un fiammifero perché l’incendio divampi. La “passeggiata” di Sharon sulla Spianata nel 2000, che fece scoppiare la seconda Intifada, alla religione si sovrappone la politica. E poi c’è la storia.

La Risoluzione Onu 181 del novembre 1947 aveva stabilito l’internazionalizzazione di Gerusalemme, che Israele non accettò, così nel 1949 proclamò Gerusalemme capitale dello Stato di Israele. Dal ’48 al ’67 la città era divisa in due zone, poi, nel 67, con la guerra dei sei giorni, fu annessa da Israele che l’anno successivo, il 1980, con la Jerusalem Law, sancì de iure, la città capitale “completa ed unita”. Un atto univoco che non ha trovato appoggio nella comunità internazionale, ha trovato invece la condanna dell’Onu. D’altro canto, nel 2000, l’Autorità Nazionale Palestinese ha promulgato una legge che designa Gerusalemme est come capitale di un futuro stato palestinese, legge ratificata dall’allora presidente Arafat. Se si è riusciti finora a contenere il conflitto, è grazie allo statu quo (o, meglio, ai vari statu quo, che regolamentano la vita su questi territori), richiamato anche da papa Francesco nell’Angelus di questa mattina. Là dove tutto è imperfetto, nulla va cambiato. Su questa complessità politico-religiosa-geografica-economica si inseriscono le esternazioni di Trump, come se fosse possibile cancellare con un colpo di spugna il vissuto di due popoli, fatto di memoria, rabbia, frustrazione, paura, odio, morti, sangue, dolore. La storia è maestra di vita solo se si ha l’umiltà di ascoltarla.


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