A Ciambra

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Tra i film in visione per i giurati del David di Donatello  A Ciambra è le seconda prova del regista italo-statunitense Jonas Carpignano, investito in pieno dal vento propizio dei media. Classe 1984, nato a New York da padre italiano e madre afroamericana originaria delle Barbados, il giovanotto ha ottenuto vari riconoscimenti per il suo film d’esordio Mediterranea, apprezzato tra i giovani talenti e accolto a braccia aperte alla  Quinzaine des Réalisateurs dell’ultimo Festival di Cannes.

Il suo film ambientato in Calabria, nella comunità rom di Gioia Tauro denominata appunto A Ciambra, batte bandiera tricolore; parlato in stretto dialetto calabrese (con sottotitoli italiani), è stato finanziato da sei paesi diversi (Italia, Brasile, Francia, Germania, Stati Uniti d’America, Svezia); tre sono le case di produzione che si sono coalizzate per l’impresa (Stayblack, RT Features, Rai Cinema, Sikelia Productions) e ben sei i produttori capitanati a sorpresa da Martin Scorsese nel ruolo di produttore esecutivo con al seguito un nutrito stuolo di colleghi. Penserete: una tale concentrazione di ingegni e di nomi, un’alzata di scudi così decisa e compatta sarà giustificata da un talento formidabile, da un capolavoro senza precedenti! Con tale spirito mi sono seduto davanti allo schermo per i lunghi 118 minuti della rappresentazione, due ore piene. Interminabili. Gli attori appartengono tutti alla famiglia Amato che si mette in scena al completo (una sfilza inesauribile di nomi sfilano nei titoli di coda), ed è come assistere alla replica della saga dei Casamonica in veste dimessa. Ricordate il funerale di Vittorio Casamonica a Roma? La quadriglia di cavalli neri alle stanghe della lugubre carrozza barocca, i petali di rosa lanciati da un elicottero, privo di ogni autorizzazione al volo, che fioccavano dal cielo volteggiando sulle note musicali del Padrino? Quello sì era un kolossal, per sontuosità scenografica, effetti speciali, gusto dello spettacolo, sapiente regia d’assieme. A Ciambra non possiede neanche l’ombra di quella visionarietà, ma l’autoesaltazione sì, e anche l’esibito compiacimento.

Il film narra di uno dei figli della numerosa famiglia nomade, l’adolescente Pio, che ha fretta di crescere e diventare uomo a emulazione del fratello maggiore Cosimo; il quale è un virtuoso di furti, rapine e ladrocini, che mette a segno a piacimento infischiandosene dell’arresto ai domiciliari. Quando arrivano periodicamente i carabinieri, segnalati dai richiami delle sentinelle sui tetti delle catapecchie, la refurtiva è già sistemata da un pezzo, al sicuro presso un’altra organizzazione parallela, quella nei neri clandestini, invariabilmente allegri e di buon cuore, che ricettano tutto il ricettabile in grandi capannoni  e smistano la merce con zelo professionale. Le forze dell’ordine vengono accolte tra insulti, sputi e minacce; Pio corre a staccare l’allaccio abusivo alla rete elettrica; ma il padre e il fratello finiscono ugualmente in manette per aver infranto il domicilio coatto. L’organizzazione malavitosa ne risente, ed è naturale che un ragazzetto sveglio come Pio (benché l’aspetto dell’interprete non lo direbbe) scalpiti nell’impazienza di contribuire all’economia familiare rubando e razziando al pari di tutti gli altri. Avverte di potercela fare, è pronto a qualsiasi azione, si sente adulto, già uomo, sebbene non abbia ancora conosciuto la femmina. Le donne giovani scherzano con lui, lo stuzzicano, tra la tenerezza e la voglia di smaliziarlo, e quando in discoteca si incanta impacciato davanti alla ragazzina che lo attrae, saranno i suoi amici neri a prenderlo di peso sotto le ascelle e depositarlo quasi in braccio alla piccola maliarda. Ma non è ancora tempo di sentimenti; e sarà il fratello maggiore a svezzarlo portandolo con sé nella baracca di due bagasce. Cosimo gli ha insegnato come forzare le portiere delle auto, aprire il cofano, staccare gli allarmi, stabilire il contatto dei fili per accendere il motorino di avviamento. E Pio smania ora di  prenderne il  posto. Su incarico della cosca di italiani che domina nella zona è lui a trattare il riscatto di un’auto rubata e portare i soldi alla madre Jolanda, la vera papessa del clan, capace di far filare a bacchetta l’intera tribù, dai più piccoli ai più grandi, compreso il vecchio nonno capostipite. Quando si mettono tutti a tavola è una festa: “Vedete, mangiamo come gli italiani!”, si esaltano gli zingari bevendo il vino rosso e affondando le forchetta negli spaghetti alla carbonara, in un gesto  di sfida e di promozione sociale.

Ma Pio nella su ansia di strafare commette un errore, compie un’impresa assai pericolosa per tutti. Lancia di proposito il pallone al di là del muro di cinta della villa abitata dalla famiglia dei potenti italiani i quali sono appena usciti dal cancello e stanno salendo in macchina. Il capofamiglia, per restituire la palla al ragazzino, è costretto a rientrare digitando sul tastierino il codice di accesso. Pio osserva, memorizza e quando il campo è libero entra nella casa cercando oggetti preziosi da trafugare. Ma uscendo trova i proprietari ad attenderlo:  lo sgarro è gravissimo, in altra circostanza gli sarebbe costata la vita. La famiglia rom intercede ma lo allontana per punizione. Il ragazzo cerca rifugio dall’amico nero Koudous, più grande di lui, che gli è sinceramente affezionato; viene accolto con generosità, trova un letto e un conforto. Scopre il sapore di un vero rapporto umano. Al punto che quando Cosimo, subito scarcerato (come di consueto), organizza un mega saccheggio al deposito di refurtiva dei neri, Pio non se la sente di partecipare alla carognata, si sottrae, si defila, suscitando stupore tra gli altri partecipanti. Inforca il motorino e corre da  Koudous, senza però riuscire a parlare, senza neppure provare a metterlo in guardia. Resta muto, incapace di tradire la propria famiglia, ma allo stesso tempo non riuscendo a trattenere le lacrime per il rimorso. Anche i ladri hanno un cuore. Nondimeno i vincoli di sangue finiscono per prevalere su quelli dell’amicizia.

Pio per quanto imberbe è ormai cresciuto, è diventato adulto, deve fare una scelta di parte; e da buon predatore, sia pure con qualche esitazione, rientra docilmente nel branco che rappresenta il suo futuro. L’infanzia di un capetto è finita. Conclusione della storia.

Dimenticavo il cavallo. Il cavallo compare a Pio in sogno, un bell’animale senza finimenti, senza sella, senza morso, che si aggira indisturbato per le stradine del paese ed emana un misterioso magnetismo, un’attrazione a seguirlo. Il cavallo, si sa, nel linguaggio dell’inconscio rappresenta un simbolo potente di libertà, di desiderio di evadere, di scorrazzare senza freni nelle praterie della vita. Vi pare poco?

All’operina è stato assegnato in Francia il Premio per il miglior film europeo. In Italia è stato riconosciuto “Film di interesse culturale con il contributo economico del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Direzione Generale per il cinema”. Una qualifica che non viene negata più a nessuno, con annessi benefici fiscali e sul credito.  Per l’orgoglio del contribuente.

E non è tutto. La Francia ha partecipato al progetto mettendo in campo varie istituzioni, compreso – non sobbalzate! – il Ministère des Affaires Ètrangères et du Développement International.

Un vero miracolo, non c’è che dire, riferito a un prodotto di impianto amatoriale e di modesto livello, per quanto riverberato da una sgangherata vitalità.

A Ciambra è stato candidato dall’Italia per concorrere al Premio Oscar nella categoria del miglior film straniero.  E’ il tipo di storia che gli americani classificano come ethnic movie, cinema etnico. In che cosa rappresenta il nostro Paese? L’unica spiegazione è che nel giudizio dei selezionatori non ci fosse nulla di più decente da inviare. Ma come, il nostro cinema non è in piena, splendida, esaltante ripresa? “Tout va très bien, Madame la  Marquise”.


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