Enzo Biagi e la libertà senza aggettivi. Lettera aperta a dieci anni dalla scomparsa

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Caro Enzo,

dieci anni sono un tempo sufficientemente lungo per stilare un bilancio della propria vita, specie se come nel mio caso si tratta di un’esistenza ancora breve e non ancora del tutto definita nei suoi contorni essenziali.

Dieci anni e il tuo esempio che mi è sempre stato vicino, dieci anni e i tuoi articoli e i tuoi libri che ho continuato a utilizzare come fonti preziose, dieci anni in cui ho iniziato ad occuparmi di politica, dieci anni in cui sono stato immerso, al pari della mia generazione, nella peggior crisi dal ’29, dieci anni in cui ho visto cambiare nuovamente il mondo e assistito all’insedamento di Trump negli stati Uniti; dieci anni difficili, insomma, nel corso dei quali mi sono domandato spesso cosa avresti detto e scritto tu, come avresti reagito all’ascesa al potere dei rottamatori nel nostro Paese, come avresti raccontato l’era Obama e che ne avresti pensato dei giovani scesi in piazza nei paesi arabi o alla Puerta del Sol a Madrid, ispirandosi peraltro ad un libro scritto da un partigiano francese tuo coetaneo.

Dieci anni, caro Enzo, e l’amara sensazione che molto, per non dire tutto, sia cambiato e quasi nulla in meglio.

Dieci anni e la drammatica agonia di una politica sempre più incapace di rispondere alle esigenze de cittadini, come se non ci fossero più muri da abbattere, frontiere da conquistare, sogni da realizzare, conquiste civili da compiere, battaglie da portare avanti, emozioni da vivere insieme, paradigmi economici e socio-culturali da cambiare, come se tutto fosse stato già deciso, tutto si fosse già esaurito, non ci fossero alternative allo sfacelo attuale e le nuove generazioni fossero destinate a non avere un domani.

Dieci anni e il nostro mestiere che è degenerato, messo in crisi dall’avanzata dei social network e costretto a ripensarsi, dovendo ormai fare i conti con le fake news che la fanno da padrone sulla rete e con il desiderio di semplificazione eccessiva che si è impadronito della nostra società.

Dieci anni e la crisi dei giornali cartacei, fra edicole che chiudono e luoghi d’incontro che vengono meno, come se la solitudine fosse una condanna senza appello, come se ci andasse bene questa gretta chiusura in noi stessi, come se uno schermo di computer o di televisore potesse consolare il nostro senso collettivo di inadeguatezza e di paura verso un mondo che fatichiamo a comprendere e nel quale, sostanzialmente, non riusciamo più a riconoscerci.

Dieci anni in cui la stessa RAI ha perso colpi, al punto che oggi forse tu stesso ti saresti lasciato tentare dell’avventura di La 7.

Dieci anni in cui è finalmente crollato il modello liberista ma non siamo ancora riusciti a definirne uno nuovo e al passo con i difficilissimi tempi che abbiamo di fronte.

Dieci anni in cui sono venute meno le antiche certezze e non ci è rimasta nemmeno più la forza e la generosità del dubbio.

Dieci anni in cui, oltre a te, abbiamo perso molti altri maestri e punti di riferimento, ritrovandoci da soli al cospetto di una realtà globale che anche noi cronisti facciamo una gran fatica a interpretare e a raccontare.

Dieci anni in cui, personalmente, ho avuto l’onore di conoscere uno dei tuoi migliori direttori (de Bortoli), colui che curava i tuoi libri in Rizzoli (che oggi è il mo editore), le tue figlie, le tue nipoti, il regista del Fatto e la tua storica segretaria nonché di visitare la tua natia Pianaccio e di venire a pregare sulla tua tomba, in occasione di un’edizione del premio giornalistico a te dedicato.

Dieci anni in cui sono entrato a far parte della famiglia di Articolo 21 e mi sono battuto con essa per la libertà d’informazione, comprendendo quanto questo valore sia essenziale per la democrazia e per il nostro futuro come comunità.

Dieci anni, caro Enzo, e mi sembra ieri che ti dicevo addio, come se reincontrassi quel ragazzo di diciassette anni che apprese la notizia della tua morte tornando da scuola, seguì le trasmissioni e ritagliò gli articoli che ti rendevano omaggio e si propose, in quei giorni, di vivere e di interpretare questa professione seguendo il tuo esempio.

Non c’è bisogno di raccontare ancora una volta la tua biografia: la conoscono tutti, di sicuro i nostri lettori. Ciò che mi preme ricordare, invece, è la volta che tua madre ti impartì una straordinaria lezione morale, smentendoti davanti a tutta la classe e alla professoressa cui il giorno prima avevi detto che tuo padre era un impiegato anziché un operaio. Dire la verità, non vergognarsi di ciò che si è, rispettare il prossimo e, in particolare, i più deboli: questo è stato il tuo insegnamento, questo è stato il tuo valore aggiunto, questa è, insieme all’esperienza da partigiano, la tua imprescindibile eredità.

Una volta dicesti che la libertà è come la poesia: non deve avere degli aggettivi.

Caro Enzo, non ti ho mai sentito così vicino come in questi dieci anni di assenza, a dimostrazione che anche tu non te ne sei andato davvero: hai solo cambiato redazione. E noi continuiamo a leggerti, con la stima e la gratitudine di chi, anche grazie a te, ha trovato il coraggio di non perdere la dignità e, soprattutto, di non arrendersi mai.


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