Terrore a Teheran, Trump s’avventura

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I fatti si commentano ormai da soli, stracciano e buttano nel cestino delle regole obsolete e superflue la tradizionale distinzione comandata dal più classico giornalismo anglosassone: la separazione tra notizia e commento. L’attacco terroristico al Parlamento di Teheran e al monumento a Khomeini, i morti e i feriti, seguono a distanza di poche ore l’improvvisa rottura d’ogni relazione di Arabia Saudita e dei suoi alleati nel Consiglio di Cooperazione del Golfo Persico (CCG) -Bahrein, Kuwait, Oman ed Emirati Uniti- con il Qatar, anch’esso membro del Consiglio, che va così in frantumi.

Questa bomba politico-diplomatica e militare che intensifica l’incendio nella regione, viene fatta esplodere subito dopo la visita in Medio Oriente di Donald Trump, che alla monarchia di Riad ha venduto armi per oltre mille milioni di dollari. Il presidente degli Stati Uniti proclama infatti che è tutto merito suo. L’accusa al Qatar è di fiancheggiare l’Iran, dunque di fomentare il terrorismo. Una lettura quanto meno unilaterale. Obbedisce infatti agli interessi strategici dell’Arabia Saudita, sunnita, che con l’acquiescenza d’Israele disputa all’Iran sciita, la supremazia regionale

Ma il Qatar è anche un alleato essenziale degli Stati Uniti, che sul quel territorio del golfo del petrolio mantiene da anni la più importante base militare, con oltre 10mila uomini, reparti speciali, sistemi di guerra elettronica, aerei e carri armati. Così che non è difficile immaginare lo stupore e il disappunto che fondata o meno che sia, la vanteria di Trump ha provocato in alcuni suoi ministri a cominciare da quelli della Difesa e degli Esteri, negli alti comandi del Pentagono, nell’ambasciatrice a Doha, Dana Shell Smith, e tra i più responsabili degli stessi repubblicani al Senato a alla Camera.

Rivendicati dall’Isis ormai costretto in ritirata da Raqqa, la sua città simbolo, gli attentati di Teheran portano definitivamente in superficie le controversie, le ambiguità e i doppi giochi esistiti fin dall’inizio all’interno dell’alleanza che lo combatte alla luce del giorno per rialimentarlo nell’oscurità della notte. Perché in Siria gli americani vogliono cacciare Assad, un alleato storico che i russi non sono disposti a perdere in cambio di niente; così come l’Iran non vuol rinunciare  senza contropartite alle pedine degli Hezbollah in Libano e dei Fratelli Musulmani in Egitto e nella striscia di Gaza.

Di questi fattori, pur giocando spregiudicatamente sui fronti di guerra la partita mediorientale, Obama teneva conto e manteneva aperta la via diplomatica al compromesso e a eventuali intese, sebbene parziali e soggette a condizioni. Vedi quella con Teheran. Trump più ancora che voler pericolosamente recidere con la spada nodi ossidati da decenni e decenni, sembra invece menare fendenti all’impazzata. In un’area in cui la densità dei problemi è tale che basta un affondo fuori misura per squilibrare una situazione ogni giorno sul punto di precipitare. Il tutto a un’ora d’aereo da Roma.


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