Sostiene Matteo Renzi, reduce da un viaggetto di studio in California, che il reddito di cittadinanza è contro la Costituzione, la quale all’articolo uno parla di lavoro, non di stipendio. “Serve invece un lavoro di cittadinanza”. Di che cosa si tratti non spiega, ma non importa, al solito si comincia con l’hashtag, poi si vedrà. Secondo Renato Brunetta però si tratterebbe del “copia e incolla” da un articolo di Ugo Magri sul programma economico di Forza Italia apparso su “La Stampa” del 9 febbraio scorso. “La proposta – scriveva il giornalista – riecheggerà nel nome quella grillina del reddito di cittadinanza. Si chiamerà lavoro di cittadinanza, e consisterà nel garantire per legge un’occupazione di 3 mesi a tutti quanti ne faranno domanda. Questi 3 mesi di lavoro daranno diritto a trascorrerne altrettanti con l’indennità di disoccupazione, e così via”.
Il “Messaggero”, invece, scrive che il governo Gentiloni si appresterebbe “a lanciare il “Reddito di Inclusione”, ovverosia “una Card ricaricabile (REI) che i Comuni distribuiranno a due tipi di famiglie: quelle giovani a basso reddito e con figli minori e quelle dove una persona con oltre 55 anni ha perso il lavoro” che “potrà garantire fino a 400 euro mensili”. Rivoluzioneremo il welfare, ha detto l’ex premier. La proposta sarebbe quella di lanciare, entro aprile, la Protezione Sociale, ovvero una nuova struttura pubblica in grado di non far sentire più soli gli italiani colpiti dalla crisi”. Sarebbe questo il “lavoro di cittadinanza”?
La vaghezza di questi tentativi di inseguimento semantico della proposta dei Cinque Stelle da parte del Pd ma anche del centrodestra denuncia la difficoltà di rendere compatibile col riformismo moderato una misura imposta, prima o poi, dalla disoccupazione tecnologica in gran parte del mondo. Anche l’Unione Europea chiede dal lontano 1992 forme di reddito minimo garantito per consentire ai cittadini più deboli di vivere una vita dignitosa. Ee in 26 Paesi sono state adottate da tempo. Tutti quelli dell’Unione europea, tranne l’Italia e la Grecia. In caso di perdita del lavoro il reddito minimo scatta quando è scaduta l’indennità di disoccupazione (che in Italia è l’ultima tutela disponibile) e il disoccupato non ha ancora trovato un nuovo impiego. Ma nell’Ue ne beneficia anche chi, pur avendo un lavoro, non riesce a riemergere dallo stato di bisogno.
Del resto, anche la proposta di legge dei 5 Stelle tanto radicale non è, nonostante l’accusa di estremismo che le viene fatta in Italia e in particolare da Renzi (“sarebbe contro la Costituzione”, ha detto). In definitiva si tratta ancora di una forma di accompagnamento al lavoro, gestita da “centri di impiego” che forse potrebbero in questo modo raggiungere quell’efficienza che gli uffici provinciali del lavoro non hanno mai avuto. Reddito o integrazione fino a 780 euro mensili sono garantiti a tutti, ma cessano “quando il beneficiario in età non pensionabile e abile al lavoro sostiene più di tre colloqui con palese volontà di ottenere un esito negativo, ovvero rifiuta la terza offerta di lavoro consecutiva ritenuta congrua, o recede senza giusta causa dal contratto di lavoro per due volte nel corso dell’anno solare”.
Fino ad oggi, in Italia, alla disoccupazione tecnologica si è cercato in parte di rimediare prima con “i lavori socialmente utili”, poi con il lavoro precario, ma è un rimedio questo che si è rivelato peggiore del male. Non soltanto per i lavoratori, anche per le imprese. Un lavoro flessibile non garantisce gli stessi livelli di produttività di quello stabile. Obbligare a lavorare di più si può, difficile è riuscire a far lavorare meglio. Ecco perché, dovendo passare alle “macchine”, si preferisce licenziare i precari piuttosto che stabilizzarli.
Tutto questo era stato già previsto dal grande economista John Maynard Keynes fin dal lontano 1930. “La disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera – scrisse – procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera”. A rimedio della disoccupazione dilagante dopo la grande crisi del ’29, proponeva di lavorare meno per lavorare tutti. Suggeriva che “turni giornalieri di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore” potrebbero essere la soluzione “affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito fra quanta più gente possibile” (Keynes J. M. 1991, “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, in La fine del laissez-faire e altri scritti, Boringhieri, Torino).
Anche senza arrivare a decisioni così radicali, il rimedio potrebbe valere anche oggi, soprattutto per quelle economie e quei paesi che si trovano più in ritardo rispetto alla rivoluzione informatica e telematica che ha caratterizzato i paesi anglosassoni. Secondo la Banca mondiale, entro il 2030, il Pianeta perderà 2 miliardi di posti di lavoro, mentre nei prossimi dieci anni entreranno nel mercato del lavoro 1 miliardo di persone. Secondo l’ILO (Organizzazione internazionale del Lavoro), entro il 2018 la disoccupazione nel mondo riguarderà 215 milioni di persone. Come frenare la crescita impetuosa delle disuguaglianze senza garantire un reddito per sopravvivere con dignità?
Lavorare meno per lavorare tutti. In cambio di un sacrificio equamente condiviso, un diverso meccanismo di sviluppo e di distribuzione della ricchezza potrebbe migliorare la qualità della vita. Avere più tempo libero potrebbe dare anche nuova occupazione in campi come il turismo, la cultura, la sostenibilità ambientale, le attività sportive, ecc. Altri economisti, come Jeremy Rifkin, lo ripetono da decenni. Una sinistra che pensasse in grande dovrebbe ascoltarli.