La maledizione degli stoker

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La frase chiave per entrare nella maliosa serra/labirinto di Stoker è “come essere fotografati da un’angolazione sconosciuta, guardando in uno specchio”. Così si sente India, la protagonista giunta alla soglia del diciottesimo compleanno, nel cui sguardo sembra vivere il nucleo nero e pulsante della poetica di Park Chan-wook. Sono i suoi occhi a “vedere cose che gli altri non vedono”, a captare l’insidia lucente delle anime altrui, a comporre simmetrie ossessive per distorcerle in anamorfosi rivelatrice, a tracciare le geometrie del feticismo (le scarpe sono oggetti essenziali nel film), a riprodurre con movimenti ritmici del corpo il ticchettìo di un metronomo, a immergersi in un dettaglio (ad esempio i capelli della madre) con una concentrazione assoluta – non sarebbe fuori luogo definirla zen – per agire sulla memoria, portando alla luce l’immagine delle erbe palustri fra le quali si appostavano lei e il padre, appassionato cacciatore che l’ha educata alla paziente attesa nel silenzio, a seguire le orme, i segni, come un predatore, a cogliere suoni e movimenti per colpire in modo letale.

La vicenda prende avvio proprio nel momento in cui si incrociano il compleanno di India e il funerale del padre, morto carbonizzato in quello che appare un incidente d’auto. Fra cromatismi sontuosi che accentuano la sostanza onirica della storia, e in interni nei quali porte e finestre assumono un ruolo decisivo di accompagnamento e cornice allo sguardo, modalità che richiama alcune scene di Turn of screw di James, il riferimento iniziale del regista coreano pare L’ombra del dubbio di Hitchcock, per la comparsa di uno zio, fratello del padre, di cui India ignorava l’esistenza e di cui persino la madre sapeva ben poco.

Il passato ricompone a poco a poco il suo mosaico nel presente sempre più sottilmente minaccioso e delittuoso, eppure coinvolgente, capace di attrarre la ragazza con forza centripeta in un vortice di perversione. Assimilati gli strumenti della tradizione gotica più sofisticata, Park Chan-wook plasma sequenze mirabili, nelle quali l’erotismo si manifesta aggirando l’elemento materiale per accentuarne gli effetti: resterà senza dubbio nella capsula mnemonica il duetto al pianoforte, durante il quale India innalza gli accordi fino a tonalità quasi stridule per fuggire, invano, le note basse, suadenti dello zio Charlie, che l’assediano, la incalzano, ne eccitano l’immaginazione e i sensi fino a toglierle il respiro.

Nelle stanze laccate di un rosso di giorno in giorno più scuro, dove le piante verdi proliferano come metastasi decadenti, India, avvolta e resa più sensibile dall’Ombra, intuisce e respinge la follia e la violenza dissimulata di Charlie, sublimata nel garbo padronale, pur avvertendone in sé i germi.

Charlie uccide la governante e la zia Gwendolyn, arrivata in visita, per impedire loro di rivelare il passato (quest’ultima in una scena capolavoro, nel corso della quale la cintura dei pantaloni, usata per strangolare la donna in una cabina telefonica persa nella notte, viene sfilata con un movimento e un fruscìo di serpe capaci di animarla, di insufflarle vita e natura demoniaca), nonché un ragazzo invaghito di India durante un tentativo di violenza. Quest’ultimo episodio diventa decisivo per la fioritura malata della psiche di India, definitivamente scissa. Park Chan-wook con un montaggio virtuosistico, esteticamente abbacinante, mostra, nel nitore scialitico del bagno, la rimozione e ricostruzione del crimine operata dalla mente di India, dal denudamento rituale alla doccia, dall’andirivieni impaurito dei ricordi, frantumati, contraddittori, fino all’accettazione del piacere, procurato dalla morte altrui, che si allarga in centri concentrici suscitati da un prolungato atto di autoerotismo.

Appreso infine l’episodio di pazzia criminale nascosto nella storia di famiglia – Charlie da bambino aveva ucciso il fratello più piccolo per gelosia, seppellendolo vivo nella sabbia – e soprattutto che la morte del padre era stata causata dal seducentissimo ed efferato zio, India sopprime Charlie. Non tanto per salvare la madre Evelyn, poco amata e ancor meno stimata (Nicole Kidman alla sua ultima grande interpretazione – infuocata, ambigua – prima della caduta in un’incomprensibile inespressività), quanto per liberarsi di un ormai inutile e ingombrante alter ego.

regia di Park Chan-wook – con Nicole Kidman, Mia Wasikowska, Matthew Goode – produzione USA/GB 2013
presentato nell’ambito del Korea Film Fest al Cinema La Compagnia di Firenze

luciatempestini0@gmail.com


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