Il peso delle parole di Tullio De Mauro

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C’è stato un tempo, quando esistevano ancora i partiti, che gli intellettuali facevano politica e divulgavano cultura, spesso in modo elegante ed intelligente. Tullio De Mauro era uno di questi. Molti, molti anni fa, venne a Trieste a parlare di un argomento, un po’ strano e forse eretico per quei tempi, che gli avevo proposto: “la scuola difficile”. Così conobbi chi ci aveva fatto scoprire e faticare il “Cours de linguistique générale”, scoprendolo gentile, arguto e disponibile. Parlò di scuola, d’impegno, di rigore coniugato alla partecipazione e dell’importanza delle parole, perché –a quei tempi si insisteva su questo- chi parla bene pensa bene. Anni dopo, dall’aprile del 2000 al giugno 2001, divenne Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Amato II, senza riuscire ad incidere sul corpo vasto e molle della scuola che amava e conosceva bene. Adesso se n’è andato, forse con qualche disappunto, nel pieno di un dibattito avrebbe dovuto vederlo protagonista, sul “peso” delle parole che possono far male come pietre, anche quando vengono scagliate con “leggerezza” sui social. Naturalmente detestava le parolacce e l’insulto, che aveva studiato e classificato con rigore scientifico.
In una delle sue ultime interviste, ricordava che le parolacce dei politici, soprattutto quelle dette in Parlamento, “non sono la causa ma l’effetto di una tendenza generale del Paese. E sulla stampa –aggiungeva- sono più presenti che nel parlato comune, i giornalisti si compiacciono nell’usarle”. Politici e giornalisti, quindi, complici e moltiplicatori di un malcostume linguistico e concettuale. Come se non bastasse, siamo entrati nell’era della “post-verità”, una parola nuova per occultare un vecchio concetto, mentre la rete ha dilatato enormemente il numero di quanti si fanno menare per il naso da bufale e false notizie alle quali vogliono credere. Parolacce e bugie sembrano diventate il canone vincente della comunicazione sociale e politica. “L’arte della menzogna in politica” del perfido Jonathan Swift e “La menzogna in politica” della rigorosa Hanna Arendt, ci hanno insegnato molto, ma le vette più crudeli sull’uso delle parole in politica sono state raggiunte da George Orwell in “1984”, quando inventò la “neo-lingua”, per semplificare e banalizzare il pensiero, e la rete, oggi, sta realizzando la profezia di Orwell, con qualche surplus di volgarità.La “post verità” sta diventando un veleno insidioso che corrode e confonde la nostra capacità di muoverci in una realtà sempre più liquida ed incerta, ridotta –come voleva lucida follia di Nietzsche- a cumulo di interpretazioni. Ma come faremo a difenderci da “legioni di imbecilli” disposti a credere a qualsiasi teoria del complotto diffusa grazie al passaparola sui social media? La profezia di Umberto Eco si è reificata in tempi brevissimi, ma il vero problema forse è un altro: come difendere le “legioni di imbecilli” da se stessi? La “soluzione” proposta da Beppe Grillo, abile creatore di tante “post verità” e infaticabile divulgatore di insulti, è sbrigativa: sottoporre le potenziali bufale a una sorta di tribunale del popolo. E quelle prodotte dallo stesso M5S, che sono ottime ed abbondanti? Vedremo. Ma i politici, più o meno volgari, vanno e vengono, mentre i giornalisti dovrebbero avere una maggiore attenzione e responsabilità nel sorvegliare il proprio linguaggio, controllare le notizie con un rigore estremo, senza distrazioni, pigrizia e ignavia, proprio per riconquistare la necessaria autorevolezza. Intanto Grillo e il M5S si preparano –forse- a governare l’Italia e c’è da augurarsi che –come voleva il Grande Fratello- non istituiscano un Ministero della Verità, fondato sul “bipensiero”, che rassomiglia terribilmente al “mi piace/non mi piace”.

De Mauro, su questi temi, avanzava “il sospetto che questi fenomeni eccessivi servano a coprire una scarsa capacità di usare le risorse più appropriate della lingua”. Se fosse vero, come in “1984”, dovremmo abituarci all’idea che “l’ignoranza è forza”.

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