Con Trump vincitore incombe la deriva plebiscitaria sulla democrazia occidentale

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Con la vittoria di Donald Trump gli Stati Uniti e il mondo occidentale scivolano in un periodo plumbeo, denso di incognite e di pericoli autoritari. Forse, come è già accaduto nella storia degli USA, un presidente ultraconservatore (Nixon e Reagan) riuscirà pure a spegnere qualche focolaio di guerra sparso nel mondo e a ripristinare corrette relazioni diplomatiche con i paesi ex-comunisti. Forse! Ma quei tempi “eroici”, che procurarono con l’imporsi del neo-liberismo involuzioni sul piano economico, politico e sociale negli stessi Stati Uniti, in Europa e nel Sud America, difficilmente potranno ritornare e far riprendere fiato agli stati, soffocati dalla più grande crisi del capitalismo moderno.

Il trionfo elettorale di Trump è il prodotto della deriva plebiscitaria che si è impadronita del sistema politico democratico, dove gran parte dei successi e degli insuccessi provengono proprio dall’uso invasivo e distorto dei media, tradizionali (radio, tv, stampa scritta) e innovativi (la rete, i social network, gli smartphone, i blog), dalla realtà immaginaria e fittizia, dai sogni che determinano i bisogni.

In altri tempi, nel dilemma tra il candidato repubblicano ultramiliardario, razzista, sessodipendente, maschilista, politicamente scorretto, anti-establishment, elusore ed evasore fiscale, amante del lusso e immobiliarista di discutibile successo, da una parte, e, dall’altra, la contendente donna, democratica, già moglie di un presidente molto amato, legata agli ambienti della finanza, dell’establishment, trasversale in politica, ma entrambi espressione della cultura bianca dominante, non ci sarebbe stata questa battaglia all’ultimo sangue: l’elettorato avrebbe scelto, come male minore, la Clinton.

Lei sarebbe stata la continuazione, seppure più mitigata, dell’amministrazione Obama, avrebbe accontentato l’elettorato repubblicano moderato e quello democratico anche più riottoso (che aveva preferito nelle Primarie il “socialista” Sanders). L’America amica dell’Europa, scettica verso la nuova e disastrosa rotta della Brexit di Londra, ma risoluta in politica estera nei confronti della Russia di Putin e determinata, seppure con notevole ritardo, nella battaglia campale contro il fondamentalismo islamico dell’ISIS. Avrebbe anche continuato ad intrattenere rapporti economici vantaggiosi con la Cina e i paesi arabi del Golfo: le due potenze che detengono nei loro forzieri quasi tutto il debito sovrano degli USA.

Trump era ed è la “variabile impazzita” del “turbo-capitalismo”, dell’iper-liberismo, della politica fattasi apparenza mediatica, dell’espressione demagogica del finto “self made man” americano che ripete il mantra dell’America “terra di opportunità per tutti”, dello sparare contro tutto l’establishment, pur restando dentro i meccanismi rigidi del razzismo sociale e culturale. Trump esprime i tormenti della “pancia” dell’americano medio, bianco, ma anche dell’ispanico anti-castrista e di quelli che si sono appena affrancati dalla povertà post-immigrazione. Trump rappresenta il vecchio regime, gli anziani “Blue collars” in pericolo nella de-idustrializzazione progressiva del paese, ma anche i “White collars” ormai superati dall’uso delle tecnologie avanzate, che favoriscono i più giovani (più malleabili, ricattabili e senza prospettive di impieghi sicuri), oltre che della sterminata platea di pensionati, attaccati ai loro fondi pensioni sempre meno remunerativi dopo lo shock borsistico e finanziario del 2008.

La vittoria di Trump e del Partito Repubblicano alla Camera, al Senato e nei governatorati sta a significare che, nonostante la presa di distanza dalla propaganda elettorale del tycoon da parte dei vertici del Grand Old Party e dei suoi più autorevoli esponenti, l’elettorato d’opinione che ha votato Trump si è comunque riconosciuto nell’azione ostruzionistica ad oltranza dei repubblicani contro l’amministrazione Obama.

Trump è quindi espressione del “nuovo iconoclasta” che avanza nell’opinione pubblica conservatrice e del “vecchio” sistema che rimane inossidabilmente al suo posto e, anche se si tura il naso e recalcitra, fa buon viso a cattivo gioco.

Ora però a questa deriva plebiscitaria, a questa variabile impazzita del “turbo-capitalismo” dai volti plastificati, rifatti e da reality show, dovrà adeguarsi anche il complesso politico-finanziario-lobbistico che, in realtà, governa a Washington e cerca di imporsi ancora nel resto del mondo. Dopo qualche tempo di turbolenze, i mercati riprenderanno il loro più tranquillo e remunerativo corso affaristico, perché in realtà la politica economica di Trump sarà comunque improntata all’ideologia degli economisti della Scuola di Chicago “meno stato, più libero mercato, più spazio all’iniziativa privata, meno tasse e mani libere nei rapporti sociali”, a discapito proprio di quelle classi medie, impoverite dalla crisi, che hanno votato per il “biondo” Donald.

Discorso a parte per i media e quanti dovrebbero captare gli umori, gli orientamenti dell’opinione pubblica. Intanto, come accadde per il referendum sulla Brexit, le società che operano i sondaggi demoscopici non possono più basarsi sui sistemi utilizzati finora: in giugno come adesso hanno fallito tutti i pronostici! I sondaggi andrebbero condotti su panel molto più estesi di popolazione, allargando anche la casistica sociale e culturale dei componenti; ma soprattutto andrebbero condotti anche sulle tendenze che vengono esposte sui social network, perché è in questi “incubatori d’opinione” che la gente esprime senza remore i propri orientamenti, mentre spesso è “infedele” nelle risposte fornite ai sondaggisti.

I media, da parte loro, non fanno altro che amplificare gli orientamenti di questi sondaggi, adagiandosi pigramente sulle loro “verità” pseudoscientifiche e continuando, come la classe politica dominante, ad alimentare il corto circuito tra paese reale e paese apparente. Non solo, ma tutto il sistema dei media, specie quelli televisivi ancora così influenti in certi strati della popolazione (che poi è quella che si riversa con più decisione alle cabine elettorali), alimenta da troppi anni una “way of life” all’americana che non esiste più, incita al successo con ogni mezzo e contro tutti, rifugge dalle inchieste e dalle analisi sul terreno, non ascoltando le persone reali e basandosi sempre più sulle “desiderata” di opinion leader ad “un tanto al pezzo”. Da almeno 30 anni, poi, sia la TV generalista sia quella on demand hanno affidato i loro budget a formule di “successo”: come i format utilizzati sia per fabbricare nell’immaginario collettivo società dei sogni con i reality show, sia per far passare messaggi subliminali con i serial e con le ricostruzione storiche dalle tinte iper-moderne e fantasiose di tv movie.

Trump da questi punti di vista è il prodotto della nostra epoca, ma anche uno dei “costruttori” di questo sistema, un demiurgo un po’ di plastica, cerone e capelli tinti, gradasso e fanfarone, ma astuto e gran conoscitore dei bisogni più reconditi di una società malata, che ormai non può più insegnare agli altri paesi la democrazia né propagandare al mondo la sua “way of life”.


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