“Agnus Dei” di Anne Fontaine

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La guerra è un mostro che tutto distrugge, annienta, rovina; spezza le esistenze senza distinzione, profana le persone, dissipa e dissacra ogni senso di umanità, violenta, ammazza e massacra, e tuttavia non riesce, né riuscirà mai a sconfiggere la propria indisgiungibile antagonista, la pace, che invece reca misteriosamente in seno il germe della vita. Recandomi da giornalista a Medjugorje l’emozione più forte, la commozione intrattenibile non l’ho provata assistendo all’istante estatico in cui la veggente Mirjana vede la Madonna sulla collina del Podbrdo, in quel breve momento in cui nessuno sa cosa stia avvenendo, ogni voce della natura all’improvviso tace, cade un silenzio innaturale, e un brivido attraversa la folla ammutolendola. No, per me travolgente è stato l’incontro con una santa monaca, suor Cornelia, che nel corso delle sanguinarie pulizie etniche della guerra dei Balcani, saliva a piedi sulle colline intorno al piccolo centro dell’Erzegovina per andare a recuperare, uno ad uno, i bambini abbandonati dalle madri stuprate per sfregio, per vendetta, dai soldati nemici. Suor Cornelia nella sua casa ricovero che ha chiamato La famiglia ferita, da allora continua a raccogliere attorno a sé i bimbi senza madre. Quando l’ho vista la prima volta venirmi incontro così minuta nella sua tonaca immacolata, circondata da una nidiata di bambini, maschi e femmine, di ogni età, era evidente che era lei la loro madre, e i piccoli si sentivano sicuri sotto la sua protezione, avevano le faccine sorridenti, scherzavano tra loro, pregavano a gran voce. Quei figli non voluti da nessuno, bastardi dell’odio, destinati a morire di freddo e di stenti, sarebbero cresciuti in quel luogo, avrebbero studiato, suor Cornelia avrebbe procurato loro un lavoro, sarebbero diventati cittadini del mondo. Suor Cornelia era la vita contro la morte, suor Cornelia da sola aveva sconfitto la guerra. Quando le ho chiesto dove trovasse l’energia, i mezzi materiali per tirar su tutte quelle creature, mi rispose: “E’ molto facile, ci pensa Dio. Succede che un giorno giungono dei pacchi dono, un’offerta in denaro; e allora io dico: è in arrivo un altro bambino. E accade sempre così. Prima arriva il corredo e poi il bambino, perché lassù Qualcuno sa di cosa c’è bisogno, prima di me.” Quando ci siamo abbracciati, spinto dall’impulso spontaneo di stringere a me quell’essere coraggioso fatto di nervi e di luce, non riuscivo a trattenere le lacrime, perché nel cuore avvertivo ciò che viene sempre ripetuto, nessuno ha merito o demerito per dove o come viene al mondo e, se ero in vita, anch’io appartenevo inconfondibilmente a quei bambini.

Un simile sentimento aleggia nel film Agnus Dei, di Anne Fontaine, uscito silenziosamente nelle sale. Anche qui sullo sfondo c’è la guerra, e la storia ci porta in Polonia durante l’ultimo conflitto mondiale, nel dicembre del 1945. In un gelido monastero di benedettine, assediato dalla neve, una giovane suora sta morendo di parto fra atroci dolori. Nello sbigottimento che paralizza le religiose incapaci di reagire, una giovane sorella sguscia di nascosto fuori del convento e correndo a perdifiato attraverso il bosco che separa l’istituto dal primo centro abitato, raggiunge una postazione della Croce Rossa francese per chiedere aiuto. Ma nessuno l’ascolta, medici e infermiere travolti dall’arrivo dei feriti sul campo di battaglia. La suora, respinta, resta a pregare in ginocchio nella neve; fino a quando al termine dell’ennesimo intervento chirurgico una giovane dottoressa, Mathilde Beaulieu (la storia è autentica), si accorge di lei, le si avvicina, ascolta di che si tratta e senza perdere tempo afferra la borsa, sale alla guida dell’ambulanza e, con la suorina accanto, corre al convento. Il portone viene aperto con circospezione, quasi con ostilità; la paura dello scandalo è più forte della pietà, ma la dottoressa non arretra; minaccia di sollevare lei stessa lo scandalo se non la fanno entrare. Raggiunge la cella della partoriente, capisce che il nascituro è in posizione sbagliata, e decide di praticare un cesareo con i pochi strumenti che ha a disposizione, salvando madre e bambino. Promette di tornare il giorno dopo per accertarsi che tutto vada bene e portando con sé la penicillina. Ma quando all’indomani, assentandosi di nuovo senza permesso dall’ospedale da campo, la dottoressa si reca al convento, scoprirà una realtà ben più drammatica e complessa: sono almeno sette le giovani religiose in avanzata gravidanza. Qualcuna si dispera temendo la condanna dell’inferno per aver infranto il voto di castità; la madre badessa, dal volto di pietra, ha paura che se la verità trapela all’esterno il convento verrà chiuso. E’ accaduto infatti che nel corso dell’avanzata sovietica un manipolo di soldati abbia profanato il monastero abusando a più riprese delle religiose. Perfino la madre superiora è rimasta impestata dalla sifilide. Mathilde non si scompone, vincendo le loro assurde resistenze le visita una ad una assicurando il proprio aiuto e il proprio silenzio. Sta rischiando oltre misura; sulla strada del ristorno, di notte, si trova lei stessa a un passo dall’essere violentata dai soldati russi di un posto di blocco; inoltre le sue assenze alla missione medica vengono notate, il suo scarso rendimento durante i turni di assistenza in sala chirurgica crea problemi; il colonnello a capo del presidio minaccia di rispedirla immediatamente in Francia. Ma lei non cede. Mathilde, di famiglia operaia, ha studiato medicina con sacrificio, è una ragazza libera, agnostica, il voto delle spose di Gesù è quanto di più lontano da lei, e il fanatismo della badessa le ripugna; tuttavia non recede di un solo passo nell’assistenza alle gestanti. In un caso troppo difficile per lei non esita a coinvolgere il giovane chirurgo, un ufficiale ebreo con cui intrattiene una storia, e a portarlo con sé dentro le sacre mura. La vice badessa, suor Maria, la fiancheggia; e nel monastero, uno dopo l’altro nascono i bambini, le celle risuonano di vagiti, le suore allattano, la tenerezza dilaga. Presto però, uno alla volta, i neonati scompaiono, la badessa dice di averli affidati in adozione. Non è così e lo spettatore scoprirà al cinema cosa sta accadendo davvero.  La guerra volge al termine, Mathilde partirà per una nuova missione e, grazie a un suo brillante suggerimento, il convento diventerà un asilo per i tanti orfani che si aggirano tra le macerie; nessuno saprà mai da dove provengano quelle creature, di ogni età, che hanno trovato un rifugio e nuove madri. Et benedictus fructus ventris tui.

Il film è girato con molta finezza, sembra di avvertire il gelo del convento, il bagnato della neve nel bosco, la disperazione delle suore, la fame davanti alle ciotole semi vuote nel refettorio, la sofferenza fisica delle puerpere, l’odore di lattante, la gioia per le vite che germogliano a dispetto dei tempi. Gli interpreti sono eccellenti, diretti con empatia da una visibilissima mano femminile. L’orrore della guerra sbiadisce di fronte alle ragioni della vita, la pace regnerà sugli uomini di buona volontà. La religione considerata da molti una pratica inutile, retrograda, oscurantista (e in tanti casi lo è) diventa il baluardo per una vita migliore. Sono temi che assorbiamo attraverso i pori della pelle, senza bisogno di dialettiche accademiche. Le cose sono più semplici di noi. Chissà se Suor Cornelia a Medjugorje vedrà mai questo film; lei che perlustrava le colline brulle e aspre del suo paese per prendere per mano i bambini dispersi e denutriti, e portarli nella casa della Famiglia Ferita.

Mathilde, la giovane dottoressa interpretata da Lou de Laage, è davvero affascinante; è inevitabile che il maturo colonnello comandante della missione sanitaria voglia ballare tenendola qualche istante tra le braccia, nei rari momenti di pausa tra una sigaretta e una canzone suonata al fonografo;  è fatale che il giovane chirurgo ebreo, non proprio un adone, si innamori di lei senza troppe speranze, ma giura che se anche i loro incarichi per ora li separano, lui continuerà ad attenderla a Parigi. E che il destino lo ascolti!

(Dedico questo articolo al mio amico di infanzia Umberto Spadoni che amava tanto il cinema ed è scomparso in questi giorni  troppo presto)


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