Bruciati e trucidati con armi da fuoco e machete. Per il Global Impunity Index 34 omicidi di giornalisti sono ancora irrisolti

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L’Africa non è un Paese per giornalisti. E non solo perché è sempre più rischioso fare informazione. Il numero di colleghi uccisi in servizio è in crescita e le possibilità che siano individuati i responsabili, e fatta giustizia, pressoché nulle. A denunciarlo è il ‘Committee to Protect Journalists’ che ieri ha pubblicato il rapporto ‘Global Impunity Index’.
L’80% degli omicidi irrisolti in tutto il mondo dal 2006 ad oggi è stato registrato in 13 paesi africani.
Solo il 3% del totale dei casi di uccisioni di cronisti nel decennio ha avuto piena giustizia.

Secondo il rapporto, il 25% dei sospettati dei delitti sono funzionari governativi o militari mentre il 40% è costituito da esponenti di gruppi politici ed estremisti, come lo Stato islamico.
Trentaquattro i casi di omicidio di giornalisti rimasti ancora irrisolti, di cui cinque in Sud Sudan.
Di molti altri invece si conosce la matrice ma non gli autori materiali.
L’ultimo episodio è di pochi mesi fa, due colleghi sono stati trucidati con armi da fuoco e machete. I loro corpi sono poi stati bruciati.
La loro colpa? Quella di trovarsi in un convoglio al seguito di una delegazione politica di una delle parti in conflitto in Sud Sudan. Gli assassini non sono stati ancora individuati.
Come non ha un volto chi ha giustiziato Peter Julius Moi, giornalista trentenne ucciso a colpi di pistola il 19 agosto di quest’anno nella periferia di Juba, la capitale sud sudanese. Ma sul movente non ci sono mai stati mai dubbi.
Peter, come altri coraggiosi colleghi, continuava a raccontare gli episodi di corruzione e le ragioni dietro il conflitto tra dinka e nuer, le principali etnie del Paese, che sta stremando il più giovane Stato del mondo, già in ginocchio a causa di una vasta crisi umanitaria.
Il governo di Salva Kiir aveva assicurato che i killer di Moi, che lavorava per il giornale locale The New Nation, sarebbero stati identificati e affidati alla giustizia. Ma così non è stato.

Il portavoce del presidente Kiir, Ateny Wek Ateny, annunciando che la polizia aveva avviato un’indagine sul delitto, era stato costretto a chiarire che il capo dello Stato non aveva “incentivato” violenza contro i giornalisti locali con le sue dichiarazioni contro la stampa.
Il capo di Stato pochi giorni prima dell’uccisione di Moi aveva affermato che “libertà di stampa non significa lavorare contro il proprio Paese”. Non sarà stata un’istigazione a uccidere operatori dell’informazione non allineati, ma assomigliava molto a una minaccia nei confronti dei giornalisti non vicini al governo.
Nell’ultimo anno in Sud Sudan sono già stati uccisi sette giornalisti.
Le condizioni della libertà di stampa sono peggiorate dal dicembre del 2013, quando è scoppiata una guerra civile tra le forze governative fedeli al presidente Kiir e i ribelli guidati dall’ex vicepresidente Riek Machar.
Secondo le associazioni di categoria, Kiir con il suo commento ha voluto ammonire i reporter che lo avevano criticato per il mancato accordo di pace con i ribelli.
Il Sudan del Sud è 150esimo su 180 Paesi nella classifica sulla libertà di stampa nel mondo stilata dall’ong Reporters Without Borders.


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