Sguardi di frontiera Al Biografilm di Bologna i magnifici doc “Black sheep” e “Les Sauteurs”. Due storie di migrazioni e speranze

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E’ iniziato da soli due giorni, il Biografilm Festival di Bologna – alla sua 12° edizione di celebrazioni e rassegne su racconti di vite vissute  – e il segnale è forte e chiaro: l’urgenza ora è quella di raccontare l’altra parte, l’altro lato del mondo. Quello che si ammassa, ad esempio, sulle coste del nord Africa nell’unica ed ultima speranza di attraversare il Mediterraneo e trovare dall’altra parte un possibile futuro. Ma non è solo questo, ciò che arriva al Biografilm. Questa narrazione – questo storytelling, si dice oggi – ha fatto un passo ulteriore verso la sua veridicità. Lo sguardo è cambiato: non sono coraggiosi reporter occidentali oggi a raccontare, ma loro, i protagonisti. I giovani africani pronti a giocarsi tutto pur di fuggire da una morte certa, pur di coltivare ancora una speranza. Di questo ci racconta il documentario “Black Sheep” (“Pecora nera”), qui a Bologna in concorso internazionale. Storia straziante di Ausman, giovane libico di origini berbere cresciuto a pane e Gheddafi che, da adolescente, comincia a sentire che qualcosa nella sua vita non va come vorrebbe. Ad aprirgli definitivamente gli occhi è un viaggio in Marocco e poi a New York, l’incontro con altri popoli, altra gente, altre culture. Improvvisamente la sua terra diventa per lui un luogo di incubi e morte, dove se non sei un fervente musulmano rischi il linciaggio, se sei una donna rischi una vita da schiava, se sei un bambino rischi il lavaggio del cervello. Ausman sceglie di essere ateo e quando il regime di Gheddafi cade, torna nella sua terra per appoggiare la rivoluzione. Come finisce quella rivolta lo sappiamo: il radicalismo islamico investirà l’intera Libia e il suo popolo. Per Ausman non c’è altra possibilità che andare via, rinnegato dai genitori, dagli amici, dai suoi insegnanti dell’università che lo hanno  amato come studente modello e che ora gli dicono: la shaarja è l’unica strada.

La macchina del documentarista italiano Antonio Martino lo segue passo dopo passo, bracca Ausman nella sua disperata lotta per essere un uomo che rivendica a sé il diritto ad un pensiero diverso. Ma in Libia per lui non c’è posto: per essere se stesso Ausman deve rinunciare a tutto, spogliarsi di ogni legame e chiedere asilo alla Finlandia. Da dove in questi giorni è partito per raggiungerci a Bologna e raccontarci piangendo la sua dolorosa storia di giovane che ha pagato a carissimo prezzo la scelta di essere un uomo libero.

Non è qui con noi, ma in attesa di asilo politico in Germania il giovane malese Abu Sidibè, protagonista di “Les Sauteurs” (I saltatori), doc di produzione danese sulla tripla recinzione che separa l’enclave spagnola in Marocco, Melilla, dal resto dell’Africa sahariana. Melilla è il sogno proibito di migliaia di giovani africani che attraversano il Sahara per fuggire da fame, morte, carestie e guerre nei paesi d’origine. Alla fine dell’incubo del deserto si fermano lì, sul monte Gurugù, a guardare dall’alto quel muro di filo spinato che divide l’Africa dall’Europa. Per i giovani come Abu, quel muro – oltre il quale ad aspettarli c’è la milizia armata spagnola –  separa la morte dalla vita, la disperazione dalla speranza. Con un’intuizione che fa la grandezza del film, i due documentaristi tedeschi Moritz Siebert ed Estephan Wagner decidono di affidare la telecamera ad un giovane ragazzo conosciuto durante uno dei loro primi viaggi esplorativi sul Gurugù. Sarà lui, Abu, a filmare tutto quello che succede in quel posto di attesa, purgatorio di plastica, tende e polvere dove i giovani africani attendono anche oltre un anno prima di riuscire a scavalcare il muro, schivare le pallottole e gli sfollagente dei poliziotti spagnoli ed essere finalmente nell’agognata Europa.  Non ci riescono tutti, anzi. Non ci riesce che l’uno per cento di loro. Gli altri a volte tornano indietro, a volte muoiono, a volte perdono la speranza e la vita sul monte Gurugù.

A fare da contraltare alle riprese di Abu, le registrazioni di una telecamera di sorveglianza su una delle torrette della recinzione. In un bianco e nero asettico, la telecamera non riprende uomini, ma solo fonti di calore, puntini luminosi che rappresentano il pericolo, l’obiettivo da neutralizzare. L’alternanza di “sguardi” (quello della telecamera di Abu a quello della telecamera di sorveglianza) fa di “Les Sauteurs” un perfetto esempio di ciò che “guardiamo” noi occidentali e loro di altri mondi, di quali sono i nostri occhi e quali i loro, della lotta inter-umana tra paura e speranza. Magnifico.


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