Muro contro muro

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Mai visti tanti muri nel mondo della modernità come questi che sorgono nella globalizzazione! A Vienna c’era gente che piangeva di gioia per la strada quando cadde quello di Berlino, che l’intero Occidente chiamava il muro della vergogna (ma ce ne sono forse che non lo siano?). Diventava possibile correre senza freni dal mar Baltico al Mediterraneo. L’ hanno fatto milioni di studenti. L’ abolizione delle frontiere, prima ancora di Schengen, divenne il più giovane dei miti della nuova Europa finalmente sul punto di unirsi. Perfino al di là di ovvie considerazioni storico-culturali: i confini restano comunque una divisione giuridico-amministrativa che può anche costituire un ordine positivo. Quel che conta è la convivenza tra i popoli, di cui la sicurezza è per tutti e per ciascuno un fattore indispensabile allo sviluppo.
La marea immigratoria e ancor più il suo uso strumentale e spregiudicato a fini politici di parte ha stravolto tutto, il pensiero e le cose: l’umanità di tanti europei e di altrettanti americani. Da quelle stesse strade viennesi in cui la liberazione dal Mauer tirato giù a picconate scioglieva le lagrime, adesso c’è chi propone e vorrebbe già costruire un muro sul confine del Brennero. In una regione peraltro ad alta sensibilità etnico-nazionalista -l’alto Adige-, dove lingue e costumi diversi sono stati resi nel tempo compatibili solo dalla saggia lungimiranza soprattutto dei governi italiani ma anche di quelli austriaci dell’epoca. Le popolazioni locali hanno beneficiato di non pochi né irrilevanti vantaggi materiali, non solo fiscali. Da decenni godono del miglior tenore di vita della nostra penisola.

E’ solo una cinica trovata elettorale dei nazisti di Vienna e Innsbruck, commentano alcuni. I quali fanno giustamente osservare che per quel passo di frontiera transitano molti milioni di camion all’ anno, carichi di merci per miliardi e miliardi di euro. Controllarli con lo scrupolo minacciato paralizzerebbe mezz’Europa, a cominciare dalla Germania in cui tuttavia da qualche birreria bavarese guardano con simpatia all’iniziativa austriaca. Il danno economico sarebbe insostenibile. Ma non sempre il buon senso e perfino gli interessi materiali immediati fanno breccia nel pregiudizio politico. E sebbene nelle società germaniche i principi democratici siano saldamente installati, non è bene ignorare i guasti innanzitutto culturali che vanno provocando le tensioni determinate dalla massiccia immigrazione.
L’emergenza non è solo europea, investe gran parte del pianeta e dovunque crea situazioni difficili da governare. Ma anche tralasciando per un momento le questioni di principio -umanitarie e giuridiche-, i muri creano più problemi di quanti presuntamente ne dovrebbero risolvere. Sono più di vent’anni che gli Stati Uniti hanno blindato centinaia e centinaia di chilometri degli oltre 3mila della loro frontiera con il Messico (non un vicino ostile, bensì il loro miglior partner economico-commerciale). La barriera è imponente, a prima vista insuperabile: pannelli in cemento armato e reticolati elettrificati alti fino a 4 metri da terra, trappole elettroniche mascherate che appena sfiorate lanciano allarmi acustici e telefonici, facendo accorrere elicotteri, blindati veloci e pattuglie armate. Un fronte di guerra guerreggiata.
Ebbene, un simile ostacolo non solo non è valso ad arrestare l’immigrazione clandestina, non l’ha neppure significativamente ridotta. Il New York Times scrive che nel 2014 il flusso stimato sul numero dei clandestini fermati e rimpatriati non ha avuto variazioni rilevanti rispetto all’anno precedente. Sommerebbero così attualmente a ben 12 milioni gli indocumentati presenti nel paese e il loro apporto economico annuale pari a 15 miliardi di dollari. Numeri che riflettono una clamorosa contraddizione: da una parte la dichiarata ma incompiuta volontà politica di respingere messicani e centramericani disposti a tutto pur di partecipare in qualche modo all’ abbondanza statunitense; dall’altra l’evidente tolleranza del mercato del lavoro disposto anche all’illegalità, pur di approfittare di mano d’opera a buon mercato.

La situazione sulla frontiera meridionale USA risulta emblematica. E sostanzialmente non presenta aspetti diversi da quelli creatisi nelle zone critiche europee. Dall’ altra parte dell’Atlantico così come da noi, la destra politica ha fatto della questione un cavallo di battaglia: Donald Trump vuol respingere i clandestini con il coltello tra i denti, senza pietà per nessuno; Marco Rubio prometteva importanti distinguo nella speranza di catturare almeno una bella fetta del voto ispanico. Due diverse strumentalizzazioni, entrambe velleitarie. Il mondo degli affari è infatti insensibile al problema, che tutto sommato presenta ai suoi occhi più vantaggi che inconvenienti. Per la soddisfazione della malavita messicana, che da anni gestisce ormai il passaggio dei clandestini costretti a vessazioni d’ogni genere e comunque a una tassa di sconfinamento.
La zona grigia di questo confronto giocato sulle linee di frontiera più roventi, quanto meno in prima istanza ha con ogni evidenza un carattere prevalentemente politico-elettorale. Le forze che speculano sul dramma dell’immigrazione massiccia e convulsa -le varie leghe più o meno patriottiche che issano le bandiere del local contro quelle global- hanno come obiettivo la conquista della fascia d’opinione pubblica più esposta ai disagi che ne derivano. Sono le famiglie che i profughi se li vedono arrivare fin sulla soglia delle proprie case nei quartieri di periferia e ne subisce l’immediata concorrenza sul mercato del lavoro. Costrette a una convivenza di fatto tra necessità, abitudini e precarità diverse a tal punto da trasformare la sgradevolezza in odio. E ad accendere la miccia può essere un’apparente minuzia.
Nei mesi seguenti alla caduta del muro di Berlino e del regime comunista, nella Germania Est vi fu un periodo di gravi disordini in cui apparvero per le strade bande di hoolingans nazisteggianti. Le prime vittime del loro teppismo furono rifugiati politici dalla penisola indocinese e dai paesi africani più tormentati. A Rostock, una cittadina di nobiltà anseatica sul mar Baltico, giunsero a incendiare un intero edificio. Il centinaio di profughi vietnamiti che l’abitavano salvarono la vita rifugiandosi sui tetti, numerosi di loro restarono però gravemente intossicati. Con una troupe della RAI-TV andammo sul posto a interrogare i vicini, gran parte dei quali avevano incoraggiato l’assalto delle squadracce e rallentato l’intervento dei soccorsi. Tanto da suscitare nei giorni seguenti una enorme manifestazione di protesta che costrinse il sindaco alle dimissioni.

Una mite signora sui sessant’anni, che aveva assistito al dramma dalle finestre del suo appartamento di fronte a quelli investiti dalle fiamme, fu una delle due sole persone che accettarono di lasciarsi intervistare. Ammise che l’episodio era stato terribile, ne era rimasta impressionata. Scene del genere le ricordavano i bombardamenti della guerra. Lei che era del quartiere poteva spiegare come tanta gente invece di sentire almeno pietà per le vittime e soccorrerle, avesse inneggiato agli assalitori? La risposta fu che l’intimidazione era stata eccessiva. Però i rifugiati disturbavano, non avevano saputo integrarsi al quartiere. Cosa facevano per disturbare? domandammo. Testuale risposta, seguita a una breve esitazione:”Per esempio, quasi nessuno di loro aveva messo tendine alle finestre…”.

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