Crisi dei talk e marginalizzazione delle inchieste. Ne parliamo dal 2006

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Il progressivo e salutare crollo degli ascolti dei talk show sta finalmente aprendo una riflessione sui motivi di fondo che hanno prodotto la progressiva scomparsa delle realtà sociali dai palinsesti della televisione pubblica, soprattutto attraverso la marginalizzazione delle inchieste sul “mondo della vita”.

Il tema non è nuovo per Articolo 21 che da anni denuncia la gravità di questa “censura”, considerandola molto più delittuosa di qualunque editto. La prima campagna risale alla primavera del 2006 quando il Presidente Napolitano, appena eletto, denunciò ripetutamente la piaga delle morti bianche e i colpevoli silenzi delle istituzioni e dei media. La riflessione fu aperta da un articolo di Renato Parascandolo che individuò proprio nella proliferazione dei talk show politico-sociali la causa principale della scomparsa dalla programmazione delle dinamiche sociali e dei suoi protagonisti.

Un articolo, drammaticamente attuale, che a distanza di dieci anni, riproponiamo integralmente.


 

Una modesta proposta ai conduttori dei talk-show politico-sociali

di Renato Parascandolo (pubblicato nel giugno 2006)

Bisognerà scrivere un giorno la storia di quello sconcertante fenomeno di rimozione rappresentato dalla scomparsa dai palinsesti televisivi della classe operaia e, più in generale, dell’intera società civile con la sua complessità, le sue dinamiche e le sue contraddizioni. Sono vent’anni, ormai, che le fabbriche, la scuola le lotte sindacali e, più in generale, le condizioni di vita dei lavoratori sono state espunte dalla programmazione; in modo radicale, senza che ve ne sia traccia, quasi in silenzio, con tecnica indolore tant’è che pochi se ne sono resi conto e chi ne ha denunciato la scomparsa è stato trattato con indifferenza.

Poi, un bel giorno, inaspettatamente, qualcuno grida che il re è nudo, che la morte di un operaio su un cantiere è inaccettabile e che le morti bianche sono una piaga sociale che non può essere sottaciuta. Questa volta la denuncia fa notizia perché, grazie a un paradossale rovesciamento delle parti, colui che grida è il re stesso (il Capo dello Stato) e chi è additato al ludibrio è l’opinione pubblica o, per meglio dire, l’opinione pubblicata: i media.

Approfittiamo, dunque, di questa circostanza per cercare di capire che fine abbia fatto quel genere di trasmissioni televisive – i documentari e le inchieste – che aveva la funzione di mostrarci la complessità sociale e i suoi protagonisti, un genere che aveva felicemente contraddistinto la Rai degli anni Sessanta e Settanta, anche per la serietà e il coraggio civile di giornalisti e registi che avevano saputo raccontare la storia del nostro paese, dando la parola a protagonisti e vittime, scavando nelle pieghe della società civile per mostrarne tanto il mutamento contraddittorio, tumultuoso e spesso violento, quanto i sostanziali progressi.

L’inchiesta, d’altronde, è uno strumento di conoscenza utile non solo per i cittadini, ma anche per il governo e per l’opposizione che, non di rado, in mancanza di strumenti d’indagine che mostrino la realtà nella sua concretezza, si trovano costretti ad affrontare i grandi temi sociali lasciandosi influenzare dai luoghi comuni, da statistiche spesso manipolate e, soprattutto, dai sondaggi.

Chi ha decretato la fine dei documentari sociali e la marginalizzazione delle inchieste? Per quale motivo? Chi ne ha preso il posto nella programmazione televisiva?

Trattandosi di un fenomeno di lunga durata, iniziato nei primi anni Ottanta, sarebbe fuorviante attribuire il declino di questo genere a un cattivo Governo o a un determinato Consiglio di amministrazione della Rai; né sarebbe giusto addebitarne la colpa ai telegiornali i quali, per la loro stessa natura di notiziari tempestivi, non possono far altro che mostrarci la realtà in modo approssimativo: un mondo in frantumi in cui schegge di notizie sui fatti più disparati rimbalzano da una testata all’altra come in una sala degli specchi per cristallizzarsi nelle fugaci notizie di cronaca. Si dirà: la colpa è dei responsabili dei palinsesti, dei direttori di rete troppo sensibili al richiamo degli alti ascolti. Certamente, nessuno può negare che la realtà trasfigurata e spettacolarizzata dei reality e delle soap opera, come tutte le monete cattive, abbia soppiantato la realtà autentica per un problema di share. Tuttavia, questi programmi, dichiaratamente di intrattenimento, non hanno occupato gli spazi di programmazione una volta assegnati alle inchieste che, invece, sono state soppiantate da un genere apparentemente affine, il talk show politico-sociale: da A bocca aperta di Funari a Porta a porta, da Rosso e Nero a Excalibur, a Ballarò.

Questo genere di programmi, al di là delle intenzioni e delle inclinazioni ideali degli autori, ha di fatto surrogato l’inchiesta, prendendone il posto e causando un fenomeno grave di ribaltamento. Infatti, mentre nell’inchiesta è la televisione, con le sue telecamere, ad andare nelle realtà sociali per documentarne le dinamiche e le condizioni di  vita dei suoi protagonisti, nel talk show è la realtà sociale che entra (si presume che entri) nello studio televisivo, uno spazio, angusto e artificiale, del tutto inadeguato ad ospitarne la complessità e, soprattutto, a mostrarla. In questo genere di trasmissioni i commenti sui fatti prendono il posto della documentazione dei fatti, i protagonisti delle realtà sociali sono praticamente assenti e se, di tanto in tanto, viene mostrato un “servizio” (fugace incursione nella cronaca) è soltanto per dare agli ospiti in studio il pretesto per una nuova passerella di opinioni. Da molti punti di vista il talk show politico-sociale presenta notevoli vantaggi rispetto all’inchiesta: ha un costo molto più contenuto, è facile da realizzare, garantisce all’establishment una tribuna permanente, si presta alla spettacolarizzazione della politica (purtroppo, sono ancora in molti a credere che questo sia un valore). Ma altrettanto numerosi sono i limiti imposti dall’inflazione di questi programmi: il variegato e ricchissimo pluralismo sociale viene coartato nei limiti angusti del pluralismo partitico o, peggio ancora, del leaderismo; la complessità sociale è umiliata dal sondaggista di turno che pretende di mostrarcela in percentuali proiettate su uno schermo; gli anchorman rischiano, per eccesso di visibilità, di assomigliare al protagonista di “Quinto potere” e i telespettatori, privati della realtà vera, finiscono per identificarla con quella delle soap opera o delle Cronache in diretta in cui la dimensione pubblica è ridotta ad un eterogeneo rassemblement di individui atomizzati, di aneddoti e confessioni sulle miserie della vita quotidiana che indulgono più all’emotività che alla consapevolezza razionale dei grandi motori sociali che condizionano la vita dei cittadini.

Che cosa si può fare per invertire questa tendenza della televisione, prima di tutto quella pubblica, ad occultare la realtà sociale? A chi spetta il compito di restituire all’inchiesta e al documentario sociale il posto che gli spetta nei palinsesti del servizio pubblico? Sicuramente ai vertici aziendali e ai direttori di reti e testate, ma anche ai giornalisti e alla loro rappresentanza sindacale.

Ma una vera e decisiva svolta in questa direzione la si avrebbe soltanto se, con un gesto esemplare e clamoroso, i grandi conduttori dei talk-show politico-sociali, da Vespa a Santoro, da Floris a Socci, da Lerner a Mannoni, decidessero di abbandonare il confortevole rifugio dello studio televisivo per inoltrarsi in quello che Habermas chiama “Il mondo della vita”, per documentarlo nelle sue contraddizioni e i suoi progressi, insieme con i suoi protagonisti e le sue vittime. Lanciamo loro un appello perché si impegnino a mostrarci dal vivo eventi e situazioni ordinarie che, a causa della loro monotona ripetitività, non fanno notizia: un incidente sul lavoro, un qualunque giorno di scuola o di degenza in ospedale, il lavoro precario in un call center, il viaggio in un treno per pendolari, una mattina in un tribunale civile, uno sbarco di clandestini; ma anche un’impresa che investe e crea lavoro e ricchezza, un centro di ricerca che produce innovazione, un ufficio della Pubblica amministrazione efficiente. La Rai ha bisogno di dare segni di discontinuità rispetto a un trend decennale di appiattimento sui clichè delle Tv commerciali. L’abbandono degli studi televisivi in favore dei luoghi della vita da parte dei nostri migliori anchorman avrebbe un altissimo valore emblematico. Chiudano lo studio televisivo, almeno per una stagione, e gettino via la chiave per evitare ripensamenti!

Non possiamo sapere se qualcuno di loro vorrà raccogliere questo appello; nel frattempo ringraziamo con deferenza e gratitudine il Capo dello Stato per aver rotto l’incantesimo del silenzio.


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