Erdogan sa che non può sfidare Putin

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Fa la voce grossa, minaccia, attacca, si fa scudo dietro il drammatico sostegno degli Stati Uniti e di un’amministrazione Obama ormai al canto del cigno, ma il sultano sul Bosforo, al secolo Recep Tayyip Erdogan, sa che non può sfidare Putin.

È un personaggio deplorevole, certo, un doppiogiochista conclamato, un finto nemico del Daesh e delle sue azioni spregevoli e un vero nemico del popolo curdo che si oppone alla sua prepotenza e al suo più che discutibile modo di governare ma non è uno stupido.

Erdogan sa che nessun generale, nemmeno Napoleone, ha mai vinto contro i russi, per il semplice motivo che la Russia è un continente che si estende dalla punta estrema dell’Europa fino alla punta estrema dell’Asia, attraversando più fusi orari e occupando una superficie che nessun esercito sarebbe in grado di controllare; oltretutto, nonostante le sciocche sanzioni occidentali, è un paese che ha resistito meglio del previsto ed è tornato a dire la sua sulla scena internazionale, pertanto ha una credibilità della quale la Turchia, specie dopo la strage di Stato verificatasi ad Ankara lo scorso 10 ottobre, non gode più.

Certo, questa non Europa, fallimentare e priva d’identità, ha pensato bene di sostenere Erdogan alle recenti elezioni; certo, la Turchia è un paese NATO di primaria importanza, situato in posizione strategica e il cui ruolo nella regione mediorientale non va sottovalutato; certo, sulla carta è un nostro alleato e, per quanto la cosa possa darci fastidio, dobbiamo tenerne conto, specie se consideriamo anche l’assurda idea che circola da qualche anno a questa parte di far entrare una nazione in cui viene fischiato il minuto di silenzio in ricordo delle vittime di Parigi all’interno dell’Unione Europea; sono vere tutte le seguenti affermazioni, ma il gioco sporco del governo di Ankara è ormai scoperto ed Erdogan sa di non poter eludere la questione.

Abbattere un caccia russo con la scusa che stesse sorvolando i cieli turchi (per diciassette secondi, pensate un po’!), massacrare i dissidenti e bombardare i curdi anziché i seguaci del califfo al-Baghdadi, formare, insieme ad Arabia Saudita e Qatar, il terzetto di stati sulla carta amici dell’Occidente e, nei fatti, fiancheggiatori e finanziatori occulti dei jihadisti, violare sistematicamente i diritti umani, mettendo in prigione i giornalisti scomodi e minando alla radice le basi stesse della democrazia e beneficiare dell’appoggio di un’alleanza atlantica che, a parole, condanna gli attentati ma, di fatto, ha al suo interno paesi che vendono sistematicamente armi ai loro fautori: si possono pure avere al proprio interno tali e tante contraddizioni ma non si può pensare di sfuggire all’implacabile logica della storia. E la logica della storia, quel buonsenso naturale che ha spesso raso al suolo l’arroganza di condottieri più o meno navigati, ci dice che la Russia è oggi una nazione guidata da un autocrate che non sa neanche dove stia di casa il concetto di democrazia ma comunque in grado di risollevarsi dignitosamente dopo la tragica parentesi di Boris El’cin e di costituire un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia davvero arginare e contrastare la barbarie del terrorismo fondamentalista.

La Turchia, al contrario, non si sa cosa sia: oscilla, è una polveriera al proprio interno e ha un governo in evidente affanno, disperatamente impegnato a reprimere le voci ostili alla narrazione ufficiale (ultima, in ordine cronologico, quella dell’avvocato curdo Tahir Elçi) e intento a recitare le molteplici parti che si è attribuito in questa pericolosa commedia. Così facendo, però, risulta ormai inaffidabile persino agli occhi di chi un tempo guardava a questo paese cuscinetto fra due mondi in conflitto con simpatia, nella speranza che un’eventuale integrazione di una parte del mondo islamico in Europa potesse garantire un equilibrio nei rapporti con quel frastagliato universo.

Non è così: specie gli ultimi anni dell’esperienza Erdogan, dai fatti di Gezi Park in poi, ci confermano che con il mondo islamico bisogna dialogare ogni giorno e che bisogna favorire la piena affermazione di una società aperta e multietnica, sanzionando qualunque forma di razzismo, di intolleranza e di discriminazione; tuttavia, ci dicono anche che non solo la Turchia non è pronta per entrare a far parte dell’Unione Europea ma che ha ben poco a che vedere con noi, con la nostra concezione della democrazia, del governo e delle istituzioni e che un suo eventuale ingresso potrebbe addirittura favorire il processo di “turchizzazione” di un continente nel quale non mancano di certo pulsioni populiste, anti-democratiche e di tragico accentramento del potere nelle mani dell’esecutivo.

Per questo Erdogan sa che, al netto del sostegno di maniera di Obama e del silenzio assordante di un’Europa ormai senza bussola, non ha né i mezzi economici né le risorse militari né, tanto meno gli appoggi internazionali per sfidare apertamente Putin, le cui prime reazioni all’atto di guerra di martedì scorso sono state comprensibilmente durissime.

Non a caso, sta cercando in tutti i modi di ricucire, di riallacciare i rapporti e di giungere a una tregua con Mosca che alla fine, ne siamo convinti, arriverà, in quanto nemmeno a Putin conviene aprire un nuovo fronte di conflitto, dovendo già fare i conti con la crisi ucraina, le mai sopite tensioni interne con i ceceni e, per l’appunto, la minaccia jihadista del Daesh.

Con ogni probabilità, lo zar del Cremlino strapperà la concessione di una libertà totale di sorvolo dei cieli turchi, minacciando in caso contrario ritorsioni che indurranno Erdogan a scendere a più miti consigli, e una maggiore vigilanza dei paesi della NATO sull’operato del governo di Ankara, in particolare per quanto riguarda il suo sostegno indiretto alle forze jihadiste e alle mire espansionistiche sulla regione curda della Siria, ma non c’è da aspettarsi di più. Non c’è da aspettarsi, in poche parole, che Stati Uniti e Russia inizino a collaborare sul serio per estirpare nel più breve tempo possibile la minaccia mortale dell’ISIS, almeno fino al novembre del 2016, quando, probabilmente, Hillary Clinton prenderà il posto di Obama alla Casa Bianca. Il rischio è che per quell’epoca il cancro jihadista abbia squassato l’Europa con nuovi attentati, che il mondo arabo sia in preda all’anarchia assoluta e che persino un’eventuale alleanza strategica fra le due potenze mondiali per radere al suolo quest’incubo risulti ormai tardiva.

Sono i frutti avvelenati della campagna elettorale permanente in cui è avviluppato da anni l’Occidente, con conseguenze che purtroppo sono sotto gli occhi di tutti.


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