Se l’odio razziale cresce è anche responsabilità di un giornalismo sempre più superficiale e di un servizio pubblico ormai privo di mission e identità

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Il caso di Nicole, la bimba Rom con un QI più alto di quello di Einstein e l’hate speech che ne è seguito su La Stampa con gli interventi della redazione del quotidiano on line di Torino, può senza dubbio essere uno dei motivi, insieme a molti altri, che dovrebbero spingere noi giornalisti a severe riflessioni.

In questi giorni mi è tornata in mente anche la collega tedesca Anja Reschke e il suo editoriale su ARD che ha lanciato l’allarme sull’esplosione dell’odio contro i rifugiati che si autoalimenta sui social network. “Fino a poco fa – diceva nel suo editoriale – i razzisti commentavano usando pseudonimi. Ora non si vergognano più, anzi frasi come ‘sporchi parassiti dovete annegare in fondo al mare’ ottengono valanghe di like. E poi diceva ai telespettatori tedeschi “Opponetevi, parlate, svergognateli in pubblico”. Un vero e proprio appello alla rivolta della gente per bene, come quella lanciata nel 2000 da Gerhard Schroeder dopo l’incendio alla sinagoga di Dusserldolf.

L’Europa sta andando così, l’Italia sta andando così, con una vera e propria ondata di xenofobia, odio razziale, guerra agli ultimi fatta da una minoranza che ha voce, perchè ha voce il messaggio salviniano, che addirittura sembra più forte e penetrante dello stesso messaggio di salvezza della Chiesa. Ed in tutto questo c’è una categoria troppo silente, la nostra, quella dei giornalisti. Non vedo una Anja in Italia, non vedo un invito alla rivolta della gente per bene.

Non vedo quella passione civile di Stèphane Hessel, il partigiano 93enne francese che scrisse nel 2010 Indignatevi. E vedo una classe dirigente troppo spesso passiva. Noi stessi, giornalisti, siamo classe dirigente di questo Paese, ma abbiamo abdicato al nostro ruolo di informare. A volte per pigrizia, perchè è più semplice porgere il microfono, come dice Sergio Lepri. A volte perchè si preferisce essere vicini al potere e quindi rassegnarsi al potere. A volte perchè spariscono quegli spazi, televisivi, radiofonici, sui giornali e ora anche sul web, in cui si racconta il Paese e si prova a darne una lettura non pedagogica, nemmeno educativa, ma semplicemente quella del racconto dei fatti andando in profondità.

E se questa capacità, questa “missione” la perde il servizio pubblico, allora è come se scrivessimo un libro di pagine bianche, in cui trionfa chi urla più forte, chi ha lo slogan migliore, chi riesce a far emergere le fobie e le paure più ataviche che spesso sono anche quelle più crudeli e individualiste, becere, pericolose, immonde e tragiche.

Per venire alla Rai, si parla tanto di riorganizzarla, di definirne una nuova governance, di ristrutturarla. Ma senza spiegare l’obiettivo principale. Cambiare per raggiungere quale obiettivo, per darci quale nuova missione? Per fare quale informazione, per realizzare quale prodotto, per raccontare che cosa e come?

Ecco, l’iperbole del libro torna prepotentemente. Una governance senza mission per la Rai è come un libro senza parole. Una cornice senza dipinto, un corpo senza sentimento o, per chi crede, senza anima.

Per questo come Coordinamento del Gruppo di Fiuggi, che raggruppa diverse sensibilità del giornalismo italiano che hanno scelto di intraprendere un cammino condiviso, l’8 settembre per tutta la giornata ci vedremo alla Sala Tobagi della Federazione Nazionale della Stampa, per parlare di una Rai che vogliamo diversa ma non solo nella sua governance ma nel suo modo di informare, di fare cultura, di fare prodotto.

Un incontro che promuoviamo insieme alla FNSI, all’UsigRai, ad Articolo 21.

Inconteremo i nuovi vertici, per chiedere loro di agire con indipendenza, anche se eletti con una legge che li macchia col peccato originale della lottizzazione. Incontreremo gli organismi di controllo, che vorremmo addirittura più stringente per fare rispettare il pluralismo ma non quello della bilancia delle rappresentanze politiche ma della bilancia delle storie del Paese, di chi ha voce, forse troppa, e chi voce non ne ha come i migranti, le nuove povertà, le aziende che resistono e quelle che non ce la fanno. Una vigilanza capace di indignarsi non per i tempi antenna dei partiti, ma per i tempi antenna della società. Incontreremo il Governo, che vuole riformare la governance dell’azienda per dire che ci sono modelli in europa che possono essere presi ad esempio, che non serve asservire un’azienda di servizio pubblico radiotelevisivo al governo ma che ci dovrebbe essere una Rai capace di “servire” tutto il Paese.

Ci saranno idee e proposte in campo, relazioni aperte al confronto, pareri della società civile. E l’idea, trainante e trascinante, di un rapporto che noi giornalisti dobbiamo ricostruire con i nostri lettori, radioascoltatori, telespettatori. Un nuovo patto comune, per ricreare fiducia, per provare a ricreare quel sano rapporto per cui tu mi guardi e mi ascolti sapendo che da me sentirai dire non ciò che vuoi sentirti dire, ma tutto ciò che è opportuno che tu sappia per formarti una coscienza critica. Non devo dirti come la devi pensare, ma devo darti gli strumenti per capire. E per farti essere un cittadino cosciente. E forse, così, gli appelli alla gente per bene avranno giornalisti pronti a farli e cittadini pronti a riceverli. E nel caso pronti ad indignarsi.

Giorgio Santelli*
Coordinamento Gruppo di Fiuggi


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