Libertà di stampa: in Italia sempre peggio

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Non facciamoci illusioni: se nel mondo, come abbiamo visto nel nostro precedente articolo «Stampa e libertà: un binomio sempre più in crisi» è chiara la correlazione tra rispetto dei diritti civili e libertà di stampa, è evidente che il nostro paese non brilla certo né per le une né per l’altra. Nonostante l’apparenza democratica, l’Italia è un paese “partly free”, solo parzialmente libero sotto il profilo della libertà di stampa. Un dato che non ci può più nemmeno sorprendere. Perché non si può più parlare di una situazione congiunturale: l’Italia negli ultimi anni ha occupato posizioni basse, anzi sempre più basse, nelle classifiche internazionali sulla libertà di stampa. “C’è una chiara situazione di debolezza”, sottolinea Stefano Corradino, direttore del magazine online di Articolo21, l’associazione che ha lo scopo di promuovere il principio della libertà di manifestazione del pensiero.

La fotografia di questa situazione è la posizione che l’Italia occupa nella classifica stilata da Reporters Withour Borders dal 2002. Mai la situazione è stata così grave. E non dipende solo dai criteri con cui è stilato questo rapporto, secondo Stefano Corradino. Anche altre ricerche e rapporti confermano la sostanza: il nostro è un Paese sempre meno libero sotto il profilo dell’informazione.

È da una quindicina d’anni che si monitora in maniera costante la libertà dell’informazione nel mondo, ma “se vogliamo dare una data d’inizio a questo ulteriore trend di peggioramento della situazione italiana”, prosegue Stefano Corradino, “possiamo indicare il primo governo Berlusconi”. Motivo? Il mai normato conflitto di interessi di cui l’allora presidente del consiglio era portatore. In altri paesi, quando non esisteva una normativa che tutelasse la democrazia dagli accumuli di poteri di questo tipo, è stato naturale realizzare una legge. “Da noi il conflitto di interesse è stato sbandierato anche nell’ultima campagna elettorale come uno dei temi su cui era necessario intervenire”, dice Corradino, “salvo poi non passare mai ai fatti”.

A questa “metastasi della democrazia”, come la chiama Corradino, si affiancano altri problemi. Primo fra tutti le minacce ricevute dai giornalisti. I dati raccolti da Ossigeno per l’Informazione, l’osservatorio promosso dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana e dall’Ordine dei Giornalisti, mostrano un trend preoccupante, con già più di cento casi di minacce riportati in questo scorcio di 2015. Proprio i dati di Ossigeno, relativi all’anno 2012, erano già stati utilizzati in un bel lavoro di Jacopo Ottaviani, Isacco Chief e Andrea Fama, «Ma chi me lo fa fare». Tristemente, la situazione è perfino peggiorata da allora.

Tra gli ultimi casi da registrare ci sono le minacce che hanno costretto Sandro Ruotolo ad avvalersi della scorta e l’auto e lo scooter di Lorenzo Vitto date alle fiamme a Reggio Calabria. Ma come racconta Raffaella Della Morte di Ossigeno, il repertorio è vasto e include i pedinamenti, le minacce esplicite, l’uso della violenza. I dati mostrano un aumento preoccupante dei casi negli ultimi anni ma ciò nonostante, spiega, “c’è una scarsa sensibilità alla tematica nella nostra società”.

Il metodo più subdolo per mettere il bavaglio ai giornalisti è, però, la querela temeraria. Querelare un giornalista per una presunta diffamazione è un diritto sacrosanto dei cittadini, ma per come è formulata la “legge italiana permette di usarla come intimidazione preventiva”, spiega Corradino. “Si tratta di un meccanismo che ha il potere di disincetivare il giornalista ad occuparsi di certi temi” per la paura di trovarsi a fronteggiare lunghi e lenti processi civili. Così, magari, invece di occuparsi della “tangentopoli che è ancora viva e vegeta, dei rapporti tra politica e criminalità si preferisce dedicarsi alla cronaca rosa o ad altro”. Quel tipo di giornalismo che nel film Fortapasc di Marco Risi viene definito da “giornalisti-impiegati”. Altrove, come nel sistema anglosassone, si sono introdotti meccanismi cautelativi che impediscono questo uso della querela: chi querela deve depositare una somma che può arrivare anche al 50% dei danni richiesti. E se il procedimento termina con un esito favorevole al querelato, chi querela deve risarcire a propria volta i danni.

Ma c’è anche una scarsa solidarietà tra gli stessi giornalisti. Ci racconta Raffaella Della Morte che “alcuni giornalisti vivono il ricevere una querela di questo tipo come una cosa da tenere nascosta”. Quasi una “macchia” che non deve essere vista dagli altri. Bisognerebbe che ci fosse più attenzione, anche tra colleghi, e che venisse evitata quella situazione di isolamento che il cronista minacciato spesso vive.

Un esempio recente degli effetti dannosi delle querele è la situazione paradossale in cui si trovano i giornalisti ed ex direttori dell’Unità che oggi devono rispondere economicamente in prima persona per le querele rivolte al giornale quando ci lavoravano. Una situazione dovuta al fallimento della società editrice del giornale, che quindi non tutela più i propri giornalisti e che mette in evidenza anche la fragilità della libertà di informazione quando le difficoltà economiche diventano un’altra tessera del puzzle. “Molte testate, specialmente quelle piccole, sono assillate da problemi di sussistenza quotidiana”, sottolinea Corradini, “e molti giornalisti precari corrono rischi in prima persona per pezzi pagati pochi euro”. Se il problema esiste per chi lavora come dipendente di una testata è ancora più drammatico per i free lance, che non hanno praticamente mai nessuna copertura legale da parte degli editori per i quali lavorano.

Come uscire da questa situazione? O, per lo meno, come far guadagnare qualche posizione all’Italia nella classifiche? Serve un intervento legislativo sul fronte del conflitto d’interesse, elemento che ha un peso grande nel giudizio sulla libertà di stampa che all’estero danno dell’Italia. Serve sicuramente un intervento di tutela dei giornalisti dalla querela temeraria e serve anche una maggiore solidarietà per scongiurare le minacce. “E poi servirebbe una nuova governance della RAI”, chiude Corradino, “in cui il consiglio di amministrazione non sia più sotto il controllo politico, magari sul modello della BBC. Ma mi pare che non ci siano intenzioni in questo senso”.

Aiuterebbe anche una maggiore cultura di che cosa voglia dire tutelare l’interesse pubblico, l’interesse di ogni cittadino che i politici non abusino della loro posizione, che il potere economico venisse esercitato dentro i limiti della legalità, che le minoranze venissero tenute in debita considerazione. Servirebbero più osservatori attenti, analisti accorti, investigatori cocciuti, cittadini consapevoli: servirebbero più giornalisti giornalisti e la consapevolezza del loro ruolo nell’Italia in cui viviamo.

Fonte: * Datajournalism


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