Esordio al teatro Dante Alighieri di Ravenna dello spettacolo “Giulietta… Amarcord” di Gianfranco Angelucci

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di Ugo Amati

Nel racconto di Henry James “La cifra nel tappeto”, un critico letterario di nome Corvick si mette in testa di scoprire il segreto, la cifra, che si nasconde nell’opera di un grande scrittore da lui profondamente ammirato. Per raggiungere lo scopo si chiude come un monaco in una biblioteca scandagliando in lungo e in largo l’intera sua opera. Non riuscendo nel suo intento decide di incontrare lo scrittore, il quale, sottoposto a una serie di domande, risponde che non c’è nessun segreto da scoprire: tutto è chiaro e palpabile in ciò che scrive, non meno chiaro e non meno palpabile della mensola del suo caminetto. Non soddisfatto, Corvick porta avanti la sua ricerca, trasferendola dai romanzi dello scrittore alla sua vita privata. Ciò che scoprirà lo si potrà verificare attraverso la lettura del racconto. Ma non è questo il punto. Ciò che mi preme dire e che a noi interessa è il modo di procedere di Gianfranco Angelucci nei confronti di un altro grande artista, Federico Fellini, l’ammirazione nei confronti del quale è almeno pari a quella del protagonista della “Cifra nel tappeto”. Con una differenza, tuttavia: Gianfranco non chiede a Federico quale sia il segreto della sua arte, gliela svela punto per punto, seguendo la sua “Strada”. Come un rabdomante sa dov’è la fonte da cui sgorga la sua insaziabile creatività. Il rapporto è per così dire invertito perché potrebbe essere Federico a dover porre tutta una serie di domande al suo mentore.

Per convincersene basterebbe leggere il suo ultimo lavoro dedicato a Giulietta Masina, moglie e musa del Maestro, o essere stati spettatori giovedì sera al teatro Dante Alighieri di Ravenna dove Gianfranco ha costruito una piece teatrale sulla falsariga della sua ultima prova narrativa. Una piece, tanto più ardita e sconvolgente se si considera che Gianfranco, lungo il filo del racconto si è fatto oggetto e causa del desiderio di Federico attraverso Giulietta. Una mimesi perfetta, da grande prestigiatore o mago, come ha detto qualcuno all’uscita di un teatro gremito di spettatori. Dopo un paio d’ore di una favola torva per bocca di Federico a proposito della “Strada”, ma via via sempre più leggera, c’era ancora l’eco di una catarsi collettiva nel bisbiglio degli astanti. La grande intuizione di Gianfranco è consistita nel dar voce a Giulietta, alle sue gioie e alle sue lacrime, come se il segreto, la fonte e la cifra, si annidassero proprio lì, dove uno meno se lo aspetta. Ne è venuta fuori una “patografia”, di cui essere gelosi se, come il sottoscritto, si pratica la psicoanalisi. Quest’opera teatrale si dipana infatti come un “doppio sogno”, dentro il quale ci sono i punti di rottura e le svolte di un “duplice destino”, che diventa Uno nel momento in cui si arriva, dopo felicità e tormenti alle “Nozze d’oro”.

Questa piece andrebbe mostrata a tutti coloro che si accingono ad esercitare la psicoanalisi, perché non ha niente da invidiare ai famosi “casi clinici” di Freud, sia per l’intensità e lo sviluppo della storia, sia per l’acume con cui l’autore individua le biforcazioni esistenziali dei due, a partire da un background anamnestico, specie per quel che riguarda Giulietta assai sorprendente. La compagna di Federico, come si adombra nella scrupolosa ricostruzione biografica, è stata molto probabilmente una figlia illegittima, come lo fu Sigismondo Malatesta, figlio di Pandolfo, nato in quel di Brescia, ma poi trasferito in Romagna, a Cesena, per fare la sua educazione presso lo zio Carlo. Il paragone può apparire improprio se si associa l’una all’altro, ma se si pensa a Isotta il paragone non è peregrino, anche perché Federico, con quella sua aria educata e mite, è comunque un guerriero risoluto, uno che non ci sta a tradire i suoi propositi, come quando impone Giulietta a Dino De Laurentis, il quale avrebbe preferito Silvana Mangano. Questa drammaturgia che si snoda da un film all’altro, fino a “Ginger e Fred”, è espressa con voce vellutata dall’autore sul palcoscenico, mentre il profilo tragicomico di un clown e l’ingenua dolcezza della futura Gelsomina sono nelle mani e nella voce di due inappuntabili attrici, Linda Santaguida e Maria Chiara Giordani, tanto più credibili quanto più avvenenti.

La voce di Federico, interpuntata tra un intervallo musicale e l’altro eseguito da un eccellente gruppo, i “Mosaici Sonori”, è affidata a Lorenzo Soleri, le cui apparizioni sono fantasmatiche e corpose a un tempo. L’osmosi tra vita e arte è tanto più palpabile quanto più il tono di insieme è delicato e mai gridato, come è, del resto, nelle corde di Gianfranco Angelucci. L’esatto contrario di quel che avviene in “Birdman”, l’ottimo film vincitore di alcuni oscar, i cui effetti speciali sono sempre troppo speciali, troppo urlati. Qui di speciale c’è la storia di un’umile ragazza di una borgata bolognese che va a vivere a Roma dove incontra il grande Fellini, messa in scena da un artista non meno speciale, la cui specialità almeno in questa avventura, somiglia moltissimo a quella di un consumato psicoanalista. Una rappresentazione da non perdere se, come immaginiamo, Giulietta si trasferirà da un teatro all’altro lungo la penisola.


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