Occhi chiusi su stampa siriana e irachena

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Nell’attesa che emerga un’attenzione, da molto tempo attesa, per il giornalismo indipendente arabo, al quale annualmente dedica una vetrina e un premio colpevolmente ignorati da molti media la Fondazione Samir Kassir di Beirut, anche l’analisi dei media ufficiali arabi può riservare considerazioni interessanti.
A mio avviso, ad esempio, un elemento interessante e innovativo che emerge dall’azione dei media iracheni impegnati contro il sedicente Stato Islamico è quello dell’uso dell’arma dell’ironia. Una novità documentata dall’ accuratissimo sito “mediaoriente” : se ne può cogliere la portata innovativa se lo si paragona con l’orientamento tutto tradizionale della campagna contro lo Stato Islamico condotta dai media ufficiali siriani.

Nei media ufficiali arabi infatti tradizione è sinonimo di complotto e le parole di Najdat Anzur, che sta lavorando a un film prodotto dall’agenzia governativa siriana per il cinema e la televisione con un sostanzioso budget di 400 milioni di lire siriane, lo confermano.
Lo ricostruisce bene Arabia Media Report: l’autore di Thousand days in Syria, lavoro già realizzato con l’obiettivo di raccontare la “realtà” degli eventi di questi ultimi anni in Siria, con il suo nuovo film, in uscita nel 2015, inquadrerà il jihadismo contemporaneo nell’ottica dell’ennesimo complotto mirato a destabilizzare la Siria.

I complotti sono da decenni il piatto forte della “cultura ufficiale” nel mondo arabo, perché abolito il confronto politico da quando gli stati sono stati occupati da cricche e generali golpisti, restano solo loro per spiegare la realtà.E in un mondo senza politica né cittadini i complotti ci sono. Ma non spiegano tutto. Anzi…

In Siria è diffusa l’idea non certo nuova di una cospirazione quale “origine” della Rivoluzione prima e dello Stato Islamico poi, ora estesa a una serie di complotti originanti in Turchia, Qatar e Arabia Saudita. Ma se la politica non fosse stata abrogata sarebbe difficile che qualcuno non obiettasse che nel non lontano 2008/9 Francia e Stati Uniti ripresero “alla grande” il dialogo con il presidente Bashar al-Assad nonostante l’inchiesta internazionale sul delitto Hariri, e lo fecero proprio sotto la pressione del Qatar e della Turchia. Cosa accadde? Le teorie che riducono la realtà a complotti non possono rispondere a queste domande, la loro forza è nella semplificazione, nello stereotipo. Anche perché se fornissero risposte dovrebbero andare a vedere perché i siriani si siano ulteriormente impoveriti negli anni della svolta “cinese” e urbanizzatrice del presidente siriano, e la colpa di ciò, causa non secondaria nell’incendio del 2011, non può non essere cercata a Damasco.

La cultura del complotto è facile e anche comoda. Incalza con puntualità Mediaoriente: “Un esempio lampante di questa lettura viene offerto dal quotidiano governativo siriano Tishreen. In un articolo pubblicato lo scorso 19 ottobre dal titolo La. laysa hada huwa al-hal (No, non è questa la soluzione) la caporedattrice del giornale, Raghda Mardini, si interroga sulle conseguenze della politica statunitense nella regione araba. In un atteggiamento tipico dei media governativi siriani, l’editoriale accusa “i mercenari di Washington” di aver ideato -una volta spinta la formazione di un’opposizione politica o, meglio, di “coloro che vengono chiamati dissidenti siriani moderati”- l’ennesimo pretesto per minacciare la sovranità territoriale siriana, con l’aiuto finanziario dell’Arabia Saudita.”

Il primo e più evidente prodotto della cultura del complotto è eliminare l’individuo, la popolazione, cioè “il popolo” posto guarda caso in primo piano dallo slogan delle Primavere: “il popolo vuole”. No, gli individui, i loro aneliti, non devono trovare spazio. E tutto deve essere ricondotto alla schema buoni contro cattivi. E la riapertura dell’ambasciata statunitense a Damasco, i premi conferiti al presidente Assad a Parigi? Anche questa “complessità” deve divenire un lavoro per pulci di biblioteca, non analisti delle più lampanti evidenze.
Ecco che si può leggere che le manifestazioni del 2011 furono pagate dall’Arabia Saudita: erano centinaia di manifestazioni al giorno, con migliaia di manifestanti sovente arrestati e torturati per il solo reato di aver manifestato: affermare che lo abbiano fatto per soldi è un po’ puerile, eppure la politica ridotta a complotto sa rendere anche questa una “verità”.

Le pulci allora devono tornare in biblioteca, e imbattendosi nel superlativo lavoro di Sofia Amara, “infiltrée dans l’enfer syrien” avvertiranno il bisogno di riferire un’altra storia: ma a chi? Da dove?
Anche per questo è meritorio il nuovo registro utilizzato dai media ufficiali iracheni: l’ironia. Arma che invece che spegnere la politica e l’intelligenza le riaccende.
Sulla televisione filo-governativa irachena va in onda un serial tv a puntate, riferisce Mediaoriente. “La scena si apre con Abu Bakr al-Baghdadi, l’autoproclamato “califfo” che calorosamente saluta i “miscredenti” (kuffar). Un giovane che indossa una t-shirt con lo stemma della bandiera inglese gli si avvicina e timidamente osserva: “signore, ci sono alcuni mezzi di comunicazione che criticano il suo stato dicendo che voi non concedete libertà ai cittadini”. “E chi lo dice?”, risponde il califfo in un marcato dialetto iracheno. Poi incalza, ridendo: “Noi siamo lo stato al mondo che permette maggiore libertà e maggiore democrazia ai suoi cittadini! E se non ci credi, vai a vedere con i tuoi occhi come muoiono e come si fanno saltare in aria liberamente!”. “E che mi dici del resto della popolazione?”, ha il coraggio di chiedere il giovane. Così il califfo si convince che è arrivato il momento di fare un restyling. “Chiamiamo i media amici”, ordina ai suoi fedeli, e immediatamente veniamo catapultati dentro un programma televisivo il cui nome fa il verso a “Controcorrente”, lo show di punta di Al-Jazeera che mette a confronto due opinioni diametralmente opposte. Ma qui più che di un confronto ad armi pari si tratta di un trattamento di favore per il rappresentante del califfo che, al termine della puntata, finisce per impugnare la sciabola e trascinare il suo avversario fuori dallo studio televisivo per quella che si indovina essere un’esecuzione. Con questa doppia parodia dello Stato Islamico e di Al-Jazeera si chiude la venticinquesima puntata della serie tv Dawlat al-khurafa (Lo stato fittizio).”

Difficile non cogliere la differenza tra le due critiche: la prima infatti punta il dito contro i complottatori più che contro la malattia. Ma non ci sono solo media ufficiali. E sì, sebbene il sistema siriano, ad esempio, abbia previsto solo organi ufficiali o privati ma di proprietà di componenti della famiglia del presidente. Ma, stando a dati ufficiali relativi a questa estate, nelle aeree dove non governavano né Assad né il Califfato, c’erano la bellezza di 93 stazioni radiofoniche, tra web e modulazione di frequenza. Il citizen journalism è diventato un bene diffuso tanto che non sono rari i sondaggi, e le critiche da parte dei numerosi interpellati che hanno deciso di rispondere, e questo dimostra l’attenzione e il desiderio di essere informati, partecipi.

Ma dei 244 giornalisti arabi uccisi in Siria dall’inizio del conflitto, la stragrande maggioranza dei quali ovviamente siriani, non si parla. Strano? Certamente grave e doloroso.
Anche per questo è particolarmente importante quanto ha scritto pochi giorni fa Lorenzo Trombetta, corrispondente della Ansa da Beirut: “Colpito a morte nel nord della Siria da sicari col volto coperto in un agguato che ricorda quello teso a Ilaria Alpi, la giornalista uccisa nel 1994 in Somalia: è la sorte toccata esattamente un anno fa a un fotoreporter iracheno, Yasser Jumayli, che aveva documentato nel dettaglio la vita quotidiana di miliziani, anche quelli jihadisti, impegnati nella guerra in corso da oltre tre anni nel Paese.
I membri del commando hanno risparmiato la vita all’autista e all’interprete siriani di Jumayli, investito da una ventina di colpi di arma da fuoco il 4 dicembre 2013 nella regione di Aleppo confinante con la Turchia. A pochi chilometri da quello stesso confine, l’ANSA ha oggi incontrato l’interprete, Jumaa al Qassem, che per due settimane aveva accompagnato il fotoreporter nel suo lungo tour tra Aleppo, Idlib, Latakia e Hama.
Yasser Jumayli – al quale al Jazira ha dedicato un documentario che sarà trasmesso a breve – aveva 33 anni ed era padre di tre figli. Originario di Fallujah, nel centro dell’Iraq, Jumayli abitava in una casa che oggi è in mano allo Stato islamico. La sua famiglia è stata costretta a scappare verso il Kurdistan iracheno.
“E’ stato un omicidio mirato. Sapevano chi dovevano colpire e quando. Non posso dire con certezza perché lo abbiano ucciso, ma forse pensavano che avesse visto troppo”, racconta Qassem, già fixer di James Foley, giornalista americano ucciso lo scorso agosto dallo Stato islamico. “Avevamo finito il lavoro e stavamo uscendo dal Paese. L’auto della nostra scorta era andata più avanti. La strada era piena di buche e la nostra vettura andava più lenta”, ricorda Qassem, stabilitosi a Gaziantep, città nel settore centrale della striscia frontaliera tra Turchia e Siria.”

Anche per questo oltre un anno fa mi ero permesso di suggerire alla Federazione Nazionale della Stampa di istituire il premio Rami al-Sayed. Aveva ventisei anni e una bimba di poco più di un anno quando è morto. Si chiamava Rami al-Sayed, e le modalità della sua morte sono molto interessanti. Primo: è morto per “impedito soccorso”, sanguinava da tre ore nell’ospedale da campo di Bab Amro, sotto assedio da parte dell’esercito siriano “lealista”. Secondo: il video che documenta la sua morte indica che è stato ucciso con armi proibite. Terzo e forse più importante: è stato ucciso per il suo lavoro, il citizen journalism. Da solo aveva scaricato sul canale Youtube di sua proprietà ben ottocento video che documentavano e documentano la ferocia dei bombardamenti, delle esecuzioni, delle devastazioni causate dalla guerra scatenata contro il popolo siriano nel 2012.

La sua morte, qui da noi, ha fatto notizia: non come quella -drammatica- dei giornalisti europei che perirono nell’assedio medievale di Bab Amro, ma ha fatto notizia. Ora è dimenticata, come la stessa carneficina di Bab Amro.
E’ istruttiva la battaglia di Bab Amro. La giornalista francese, collaboratrice di Le Figaro, disse che gli insorti locali la trattarono bene, la curarono per quanto fosse loro possibile. Poi fu trasportata da qualcuno, al rischio della sua vita, fuori da quell’inferno. Eppure quella battaglia fu spiegata dal regime siriano come tesa a eliminare i terroristi annidati a Bab Amro. Strani tipi quei terroristi, molto diversi da quelli che vediamo all’opera oggi…

Bab Amro, per chi non lo ricordi, è il quartiere di Homs, città insorta e città strategica nella mappa siriana.
Quella tragedia, che è riuscita a interessare anche le nostre coscienze, è stata documentata soprattutto da lui, da questo giovane di 26 anni, Rami al-Sayed. Chi domani cercherà di cancellarla, dovrà prima cancellare gli ottocento video che il ventiseienne Rami al-Sayed ha scaricato sul canale Syrianpioneer. Un documento di eccezionale importanza per il giornalismo di tutto il mondo.

Per questo torno a proporre che nell’approssimarsi dell’ anniversario dal barbaro assassinio di questo giovane collega, che cade alla fine di febbraio , la Federazione della Stampa Italiana, magari d’intesa con altri Federazioni e organizzazioni del giornalismo, istituisca un premio internazionale Rami al-Sayed. O a Yasser Joumayli.

Fonte: “Il Mondo di Annibale”


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