La disfida dei due Mattei

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A meno che non si verifichino rivolgimenti eclatanti, le prossime Regionali avranno un qualche interesse in una sola delle regioni chiamate al voto: il Veneto che, nello scenario politico venutosi a creare negli ultimi mesi, ha preso il posto della Lombardia come regione-chiave e snodo nevralgico del sistema. L’“Ohio italiano”, mutuando un parametro classico della politologia americana, vista l’incertezza e l’importanza elettorale che da sempre riveste lo stato operaio della “Rust belt”, la cinghia della ruggine, nella scelta del nuovo inquilino della Casa Bianca. Non se la prendano gli abitanti delle altre regioni, dove pure si misureranno candidati e progetti decisivi per il futuro del Paese, ma, al momento, se la pentola in ebollizione della politica italiana non dovesse produrre scossoni significativi, le sfide di primavera sembrano essere tutte appannaggio del PdR, ossia dell’ex PD, oggi giustamente ribattezzato da Ilvo Diamanti il “Partito di Renzi”.

Moretti contro Zaia, certo, ma soprattutto Renzi contro Salvini, visto e considerato che la candidata democratica è stata fortemente voluta dal segretario-premier, in quanto figura piacente e televisiva, non particolarmente ingombrante dal punto di vista della personalità e dello spessore ideale, prontamente convertitasi al renzismo dopo essere stata la portavoce di Bersani, dunque perfetta per contendere una regione un tempo impossibile per il centrosinistra ad un centrodestra in rotta, stretto fra la diaspora dei forzisti delusi, l’apparente incomunicabilità fra Salvini e Alfano, le esigue dimensioni elettorali dei Fratelli d’Italia della Meloni e i frammenti sparsi di una galassia che, dopo l’ubriacatura del ventennio berlusconiano, dovrà ripensarsi da cima a fondo se vorrà avere ancora un ruolo nella vita politica del Paese.

La disfida dei due Mattei può avere, quindi, inizio, ben sapendo che il ruolo di entrambi è ormai codificato da tempo: da una parte l’anti-politica di governo renziana, dall’altra l’anti-politica lepenista e anti-europeista del leader del Carroccio, cui va comunque riconosciuto il merito di aver rianimato un partito dato da molti per spacciato dopo gli scandali che hanno posto fine al lungo regno di Bossi e la segreteria incolore di Maroni.

Il guaio è che questa disfida, costruita e pompata ad arte dai media, non tiene conto di un terzo incomodo che in Calabria e, soprattutto, in Emilia Romagna ha servito solo l’antipasto della sua potenza devastante, ossia l’astensionismo. Perché la vera sfida, con buona pace dei due Mattei e del loro repertorio, più o meno vasto, di sparate, non sarà fra Renzi e Salvini ma fra il Paese dei balocchi e delle meraviglie descritto quotidianamente dall’esecutivo al gran completo e la drammatica realtà dell’Italia, fra la capacità di fabulazione di un gruppo dirigente oggettivamente improvvisato e lo sfarinamento del tessuto sociale che sta minando le residue certezze rimaste là dove un tempo la popolazione si sentiva al sicuro, fra l’orgia di promesse metafisiche cui assistiamo ogni giorno e il loro costante tradimento, essendo tutte, più o meno, inattuabili.

Cosa faranno gli italiani in primavera? Crederanno ancora alle “magnifiche sorti e progressive” descritte da Renzi, rinverdendo i fasti del 40,8 per cento delle Europee, o andranno a ingrossare le file di un astensionismo che ormai va ben al di là delle ataviche sacche di malcontento, purtroppo fisiologiche in ogni democrazia matura?

Perché il Premier sa bene, anche se naturalmente lo nega e lo derubrica ad aspetto secondario, che l’astensionismo è innanzitutto una bocciatura nei confronti suoi e dell’operato del governo; come sa benissimo che chi non vota oggi non è un potenziale elettore di questo PD ma, per quanto riguarda il versante sinistro, un deluso dal PD che non ha ancora trovato una collocazione e, pertanto, preferisce stare a casa. E non dissimile è il ragionamento dei grillini in ritirata: avevano creduto in questo movimento giovane e propositivo, avevano perdonato a Grillo persino le uscite più discutibili, lo avevano votato alle Politiche perché delusi dal berlusconismo al tramonto, dal leghismo che aveva tradito la natura delle origini e, sul fronte sinistro, per ancorare Bersani nel campo progressista, evitando ogni possibile scivolamento verso il montismo, ma oggi non sono più disposti a perdonare alcunché né al comico genovese né al guru della rete né a quella stucchevole pattuglia di fedelissimi che, evidentemente, non ha ancora capito che il talebanismo in politica dopo un po’ stufa, figuriamoci in un contesto fluido e sedicente post-ideologico come quello di cui lo stesso Movimento 5 Stelle si era fatto interprete per anni. Comprensibile anche lo sconforto di chi vorrebbe una destra degna di questo nome, liberale, conservatrice, saldamente inscritta nella cornice del Partito Popolare Europeo, e si trova invece a dover fare i conti con un leader, Berlusconi, il cui unico, vero erede si trova nel campo apparentemente avverso, cioè Renzi, mentre da quelle parti si agitano unicamente partiti che rifiutano il concetto stesso di moderazione e attribuiscono alla cancelliera Merkel pure la colpa della sconfitta dei romani a Teutoburgo.

Il vero punto interrogativo, in conclusione, riguarda la sinistra. Perché sappiamo benissimo che la disfida di Venezia fra il Matteo di lotta e quello di governo è una mera costruzione mediatica, come sappiamo che per Renzi il coetaneo lombardo è l’avversario ideale, in quanto non ha alcuna possibilità di arrivare al governo, dunque equivale ad un’assicurazione sulla vita. Sappiamo anche, però, che chi ha a cuore i valori storici della sinistra non è disposto ad accettare né il razzismo d’occasione in salsa lepenista dell’uno né il liberismo in stile Reagan-Thatcher dell’altro, considerando entrambi i modelli dannosi e pericolosi per la coesione sociale del Paese. E sappiamo, infine, che non c’è regalo più grande che si possa fare a Renzi della ricostruzione di una “gauche” salottiera, perfetta per chi non ha problemi ad arrivare alla fine del mese ma oggettivamente minoritaria e invisa a chiunque non rientri nei circuiti di un’élite che può e dev’essere il valore aggiunto di un partito di sinistra ma non l’anima che, naturalmente, deve risiedere fra i ceti popolari maggiormente colpiti dalla crisi. L’unica soluzione auspicabile è che dalle macerie del fu PD, ormai strutturalmente alleato con quel che resta di Forza Italia, al netto di Fitto, e con il centro di Alfano, Monti e Casini, rinasca un Nuovo Ulivo, capace di riunire la sinistra di quel partito, SEL, le mille energie e risorse racchiuse nei movimenti che in questi anni hanno dato vita a manifestazioni e referendum grazie ai quali abbiamo evitato l’inaridimento definitivo della democrazia e quell’area costruttiva del grillismo, ben rappresentata dal sindaco di Parma Pizzarotti e dai parlamentari espulsi o sul viale dell’addio al movimento, che vorrebbe dire la sua e aiutare il Paese a risollevarsi con proposte realmente innovative, senza restare imprigionata in un blog che ormai ha fatto il suo tempo né essere costretta ad assistere inerte all’ottimismo cinguettante di un Premier che vince sul campo ma è sconfitto dalla realtà.


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