Perché dovrebbero?

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Non ha tutti i torti il vicesegretario del PD Lorenzo Guerini a dire, come fa in un’intervista al Corriere della Sera, che “mancava un vero avversario, è difficile mobilitare la base quando l’alternativa è debole”. E non li ha nemmeno Matteo Renzi, che da Vienna spiega come il calo dell’affluenza, in fin dei conti, sia solamente “un problema secondario”. Dopotutto, il presidente del Consiglio ha vinto e con lui il suo partito, perché dovrebbe preoccuparsi dell’astensionismo? Inoltre, a perdere, e tanto, sono state le opposizioni, di cosa dovrebbe rammaricarsi? Del fatto che più di sei emiliani e oltre cinque calabresi su dieci non siano andati a votare? Problema loro, al massimo. In ogni caso, non suo, non di chi vince. E d’altro canto, perché i cittadini dovrebbero ancora andare a votare? Dico sul serio: perché dovrebbero? Se ha ragione Guerini e se ha ragione Renzi, nella migliore delle ipotesi, il loro voto è superfluo, nella peggiore, inutile. Perché prendersi anche la briga di esprimerlo?

Il crollo delle opposizioni, in questo, è significativo. Al renzismo, che di fatto diviene già veicolo unificante del fare politica, pare non essere in grado di opporsi nulla. Non la sinistra che guarda alla piazza della protesta sociale, non la destra tradizionalmente governativa, che si sbriciola sotto i colpi che si scambiano aspiranti leader in cerca di uno spazio, più che di un campo politico, e nemmeno i populismi nuovi o rinnovati, che non spaventano nessuno proprio perché fanno troppa paura.

Le elezioni, in quest’ottica, non sono più scelta fra vari modelli alternativi di governo, ma investitura dell’unico possibile, divenendo quella che, nel libro/dialogo fra Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky, è evocata come “la maschera democratica dell’oligarchia”. Sotto tale profilo, è ovvio che recarsi alle urne è perfettamente vano: per quelli che voterebbero per l’unico schema possibile e vincente, che comunque vincerebbe e vincerà ugualmente, e per quanti a questo vorrebbero opporsi, ma che non troveranno su quelle schede nulla che possa servire al loro obiettivo.

È un effetto non secondario del governismo elevato a cifra unica e assoluta della politica. La governabilità, termine che, nel linguaggio politico attuale, subendo un capovolgimento semantico, da concetto passivo, si fa espressione attiva della capacità di governo, è ormai assunta quale principale, se non esclusivo, parametro su cui misurare il discorso e il ragionamento sulle questioni politiche. Anche le elezioni, così, divengono semplicemente la scelta dei governanti, non dei rappresentanti. Il mio voto, ancor più quando la sproporzione delle forze in campo appare schiacciante tanto da rendere scontato l’esito, diviene totalmente inessenziale. Pertanto, non è necessario che io lo esprima. E poi, ai seguaci del concretismo quale sola ideologia rimasta, interessa il lato pratico della questione: chi vince e chi perde; tutto il resto, sono vane parole da professoroni.

In fondo, dal compito della rappresentanza, la politica e la democrazia hanno da tempo abdicato, rimanendo solo come funzione della pratica del governo, la prima, e come meccanismo per l’investitura di chi quella funzione deve ricoprire, la seconda.

Una deriva irreversibile? Non saprei, e francamente, nemmeno m’interessa saperlo. Quello che vedo è che il compito di rappresentare le istanze della società, i suoi bisogni e anche i suoi ideali, è un fardello di cui le forme politiche organizzate e istituzionalizzate fanno volentieri a meno. E chi in questa funzione ancora crede, fa a meno, volentieri o no, di andare a votare.

Quello della rappresentanza rimane un problema non evaso e ineludibile, perché ciò che non può opporsi nelle istituzioni, si contrappone a esse. Un danno? Un bene? Nemmeno questo so. Ma c’è, è sul terreno ed è presente in ogni rivolo della società reale, che pratica comunque la politica in ogni sua espressione associativa, di base, d’azione. Si può scegliere di ignorarlo, immaginando che il tutto possa essere governato dal palazzo, o si può tentare di rappresentarlo e contenerlo, dando un senso partecipativo e inclusivo alla parola democrazia. Ma ripeto, sono scelte: ognuno fa le proprie.


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