Le ragioni di un Senato elettivo

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Compagno Chiti, lei è un galantuomo, ha senz’altro ragione ma purtroppo ha perso. Ha perso sì perché, se davvero tiene il patto del Nazareno fra Berlusconi e Renzi, confermato, a quanto pare, oggi nell’incontro fra i due e ribadito dal vice-segretario del PD Lorenzo Guerini al termine della riunione, la sua battaglia per un Senato elettivo e una legge elettorale degna di questo nome, purtroppo, è destinata a crollare sotto i colpi della tenacia e della ferma determinazione del Presidente del Consiglio di commettere un errore. Un errore grave perché, che ne sia cosciente o meno, il combinato disposto di Italicum e Senato con elezione indiretta costituisce un vulnus inaccettabile per la democrazia, privando, di fatto, i cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti, tagliando fuori dalle assemblee parlamentari i partiti più piccoli ed esponendosi al rischio di una sonora bocciatura da parte della Consulta: un esito che minerebbe per sempre le fondamenta del nostro stare insieme, spezzando le gambe sia alla nostra convivenza civica sia al concetto stesso di democrazia rappresentativa.

A quel punto, e lei lo sa bene, al pari degli altri esponenti della minoranza interna del PD che erano arrivati addirittura ad autosospendersi dal partito per manifestare la propria contrarietà a questa deriva, potrebbe succedere di tutto, con conseguenze imponderabili per il Paese e per i suoi futuri assetti istituzionali e costituzionali.

Tuttavia, caro Chiti, lei sa anche che Renzi non è tipo da ripensamenti né, tanto meno, è intenzionato a tornare sui suoi passi, forte di un risultato elettorale oggettivamente eclatante e della certezza di essere il migliore, di avere a che fare con un sistema oramai giunto al capolinea e con degli interlocutori nettamente inferiori o, peggio ancora, privi di credibilità, avendo fallito la propria occasione di provare a cambiare l’Italia. No Chiti, si tolga dalla testa che il governo abbia la minima intenzione di ascoltarvi e se lo tolgano dalla testa anche gli esponenti del Movimento 5 Stelle che, nonostante tutto, con un’abile strategia comunicativa, hanno concordato con i vertici del PD un secondo incontro sulla legge elettorale, previsto per lunedì alle 15. Il che dimostra che Di Maio, Toninelli e gli altri stanno, inequivocabilmente, imparando a fare politica: sanno benissimo, infatti, che la riunione, streaming o non streaming, si concluderà con un nulla di fatto perché le posizioni dei democratici e quelle dei grillini sono da sempre lontane anni luce, al punto che il primo confronto è stato caratterizzato da continue frecciate, in un clima di palese incomunicabilità e antipatia reciproca. Tuttavia, ed è questo che vogliono i grillini, per vincere la loro sfida deve essere chiaro all’universo-mondo ciò che molti hanno capito da tempo: il dialogo attivato da Renzi è un pro-forma, in realtà non esiste, perché Renzi il suo interlocutore l’ha scelto fin dall’inizio e ci si trova a meraviglia, tanto da sacrificare le legittime richieste del suo partito pur di non scontentarlo e poter piantare la bandierina del primo passaggio della riforma del bicameralismo perfetto entro luglio.

Naturalmente, a Berlusconi di tutto ciò interessa meno di zero. Per lui, condannato in via definitiva per evasione fiscale, azzoppato politicamente per via dell’età, di un partito in crisi di consenso e d’identità e di un alleato-avversario che ha la metà dei suoi anni, il doppio delle energie e tutta la stampa a favore nonché costretto a fare i conti con la spada di Damocle del processo d’appello per il caso Ruby, il fatto di essere ancora protagonista al tavolo delle riforme è già un miracolo, soprattutto se si considera che a tenerlo in vita è lo stesso partito che un tempo, quando a gestirlo era una dirigenza meno “post-ideologica” e leggermente più di sinistra, di fronte a proposte indecenti come l’Italicum avrebbe convocato le piazze e raccolto milioni di firme per indire un referendum abrogativo.

Caro Chiti, c’è poco da fare: ha stravinto lui, il berlusconismo è entrato nelle vene della società e ha corroso il Paese e, alla fine, sia pur dopo due decenni, anche il nostro partito ha deciso di accettarlo e introiettarne i metodi, a cominciare dagli slogan, dalle promesse e dal modello comunicativo che finora abbiamo sempre respinto e tacciato di populismo.

Oramai, lo diciamo con disappunto ma anche con lucida rassegnazione, siamo noi ad essere anacronistici: noi che ancora consideriamo il partito un “intellettuale collettivo”, ispirandoci al pensiero di Gramsci; noi che vorremmo restituire ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti per spezzare le catene della subordinazione degli eletti alla volontà del capo di turno; noi che vorremmo un Senato elettivo per conservarne il senso e la dignità, pur attribuendogli poteri diversi e differenziandone le funzioni rispetto alla Camera; noi che vorremmo soglie di sbarramento accessibili a tutti coloro che rappresentano qualcosa nel Paese per non comprimere artificialmente la rappresentanza in nome di questo falso e anti-democratico mito della governabilità a tutti i costi; noi che siamo assolutamente favorevoli all’idea che chi vince le elezioni governi, attuando il programma sui cui ha ottenuto il consenso popolare, ma siamo totalmente contrari all’indebolimento di quei contrappesi indispensabili per garantire la doverosa dialettica fra le istituzioni e il buon funzionamento del sistema democratico; noi che vorremmo che a legiferare fosse il Parlamento e che il governo tornasse ad avere unicamente un potere esecutivo e attuativo delle decisioni della maggioranza dei cittadini e degli eletti; noi, tutti noi, compagno e senatore Chiti, oggi abbiamo perso.

Lei ha scritto in una lettera al “Corriere della Sera” che “nel XXI secolo la democrazia è sfidata non solo dai terrorismi, ma da semplificazioni che danno vita a quella che viene definita dittatura delle maggioranze, un affievolirsi cioè dei controlli sui governi. È un pericolo dal quale guardarsi. La democrazia ha bisogno di partecipazione e governabilità, non di contrapporre l’una all’altra”.

Abbiamo perso ma, quanto meno, non abbiamo rinunciato al coraggio e alla dignità di condurre insieme e sostenere fino alla fine una battaglia della quale, forse, un giorno, qualcuno si ricorderà.


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