Indispensabili, ma non riconosciuti. Il limbo dei mediatori interculturali

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L’appello di migliaia di cittadini stranieri che svolgono un lavoro cruciale nell’accoglienza di immigrati provenienti spesso da situazioni di crisi: non esiste una norma sulla professione, né un contratto, né un percorso formativo definito

Sono passati 22 anni da quando Klodiana Cuka ha lasciato l’Albania per trasferirsi in Puglia. Erano gli anni dei primi flussi migratori di massa, e in Italia – con le stesse parole di oggi – si parlava di stato d’emergenza. I servizi di accoglienza per gli immigrati erano ancora scarsi e inadeguati, e per questo sin da subito Klodiana decise di impegnarsi nel sociale e si specializzò come mediatrice interculturale.

Oggi Klodiana è una cittadina italiana, orgogliosa della sua doppia appartenenza a due terre che in fondo sono separate solo da una breve striscia di mare. Nel 2003 ha fondato Integra Onlus, associazione non profit che si occupa di integrazione, solidarietà e politiche sociali. Tra le sue principali battaglie, quella del riconoscimento professionale del mediatore interculturale: una figura indispensabile, ma ignorata e sottovalutata dalla legislazione italiana. “Siamo un esercito di centinaia, forse migliaia di cittadini stranieri impegnati nel campo della mediazione interculturale – dice Klodiana – Ma non sappiamo bene né chi siamo, né come dobbiamo essere formati, né con quali criteri dobbiamo essere retribuiti. Sono già state avanzate tre proposte di legge su questo tema, ma son tutte state archiviate. E fino a quando la figura del mediatore non sarà inserita nel contratto collettivo nazionale del lavoro, non avremo la dignità professionale che ci spetta.”

Come Klodiana, moltissimi cittadini stranieri sono riusciti a valorizzare il proprio percorso migratorio e sono diventati mediatori interculturali. Lavorano negli ospedali, nelle scuole, nei centri d’accoglienza, nelle carceri, negli uffici pubblici e negli sportelli di supporto agli immigrati. Ma è difficile calcolare quanti siano in tutto, poiché manca una chiara definizione del loro ruolo e un Albo che permetta di analizzare il fenomeno a livello nazionale. “Nell’ambito della mediazione interculturale regna il caos”, dice Imad Dalil, vice-presidente di Karibuni, associazione pugliese di volontariato. Nato in Marocco ma cresciuto in Italia, Dalil ha un master in mediazione interculturale e ha lavorato in contesti che vanno dal CSPA di Lampedusa a strutture per minori e centri SPRAR per richiedenti asilo. “Sono 28 anni che lavoriamo sulle emergenze: prima quella albanese, poi quella nordafricana e ora quella siriana. Ma l’emergenza è qualcosa che non puoi prevedere, mentre per l’immigrazione si dovrebbe lavorare sulla formazione e la pianificazione”, continua Dalil.

Il vuoto normativo determina anche una grande incertezza per quanto riguarda la retribuzione. Nelle gare d’appalto al ribasso, i tagli si fanno anche sul costo del personale: i mediatori interculturali lavorano senza un contratto continuativo e vengono spesso pagati meno del minimo salariale. La tematica della precarietà vissuta dai mediatori interculturali è stata al centro della giornata conclusiva del programma In Media Res, INtegrazione MEDIAzione REte Sud, tenutasi l’11 aprile nella sede dell’associazione Arcoiris Onlus (Quartu Sant’Elena, CA). Finanziato dalla Fondazione Con il Sud, il programma è dedicato alla valorizzazione e alla formazione professionale dei mediatori interculturali. Hanno partecipato otto associazioni operanti nell’ambito dell’immigrazione – cinque in Sardegna (Barvinok, Arcoiris Onlus, Labint, FouduDia, Africa e Mediterrano), due in Puglia (Integra Solidale e Karibuni) e una in Basilicata (Associazione Mediterraneo).

La formazione professionale è un altro dei temi caldi per chi opera nel settore. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le tipologie di formazione, che vanno dai corsi brevi di 100 ore ai master di secondo livello, ma mancano standard e requisiti certi. “Le competenze acquisite direttamente sul campo oggi non vengono riconosciute”, denuncia con preoccupazione la venezuelana Arlen Haideé Aquino, presidente dell’associazione Arcoiris Onlus e mediatrice interculturale presso la provincia di Cagliari. Nonostante la sua decennale esperienza professionale e la partecipazione a numerosi corsi di specializzazione, la mancanza di un titolo universitario la porta a ritrovarsi in una posizione precaria. “L’università di Cagliari ogni anno sforna dei neo-laureati qualificati in mediazione linguistico-culturale, ma in realtà sono solo interpreti. Senza esperienza sul campo non si è mediatori, eppure il loro titolo è più riconosciuto rispetto al mio percorso”, aggiunge Arlen.

L’appuntamento finale del progetto In Media Res è stato anche l’occasione di un confronto con alcuni rappresentanti istituzionali, tra cui Romina Mura, parlamentare e sindaco del comune sardo di Sadali. “Alcune regioni hanno già riconosciuto la figura del mediatore ed è importante tenere conto dei contesti locali, ma serve un quadro nazionale certo – dice l’on. Mura – Si parla di pari opportunità per le donne, ma le opportunità devono essere pari per tutti, immigrati inclusi”. Ricollegandosi a questo discorso, Klodiana ricorda che i mediatori per anni sono stati considerati delle “figure ponte”, ma oggi sono dei veri e propri “agenti di sviluppo territoriale”: “Quello del mediatore interculturale non è solo un lavoro, è una missione. E abbiamo bisogno di una legge che ci riconosca”, conclude Klodiana. (Lorena Cotza)

Questo articolo fa parte del progetto Our Elections Our Europe (Oeoe), che, attraverso il monitoraggio della stampa prima delle elezioni europee 2014, identifica dichiarazioni incitanti alla discriminazione da parte di politici e risponde in modo creativo attraverso articoli, vignette satiriche, radio storie, flash mob e una campagna internazionale sui social media. Oeoe è realizzato dal Media Diversity Institute in Gran Bretagna, Symbiosisin Grecia, il Center for Investigative Journalism e CivilMedia in Ungheria e dall’associazione Il Razzismo è una brutta storia in Italia, grazie al sostegno di Open Society Foundations.

Da redattoresociale.it


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