Per una sinistra che riparta dai valori

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Non di un nuovo, pedante manifesto ha bisogno la nostra disastrata sinistra bensì di ripartire dalle idee. Detta così, può sembrare un’affermazione quasi banale: una delle tante riflessioni fumose che abbiamo letto e ascoltato negli ultimi giorni, frutto della pochezza morale e culturale di questo tempo senza valori e, per l’appunto, senza idee, senza ideali, senza quelle ideologie indispensabili affinché i partiti abbiano un senso e una ragione sociale di esistere. Tuttavia, proprio per questo vien da domandarsi: può la sinistra, in una fase storica così controversa, con l’Europa che brucia (e non solo materialmente a Kiev e nel resto dell’instabile Ucraina) e un mondo che cambia a ritmi incessanti ma senza aver ancora ben definito una meta e un orizzonte, può la sinistra rinunciare alla sua missione storica, volta ad assicurare l’uguaglianza e la parità di condizioni di partenza a ciascun cittadino, indipendentemente dal ceto sociale cui appartiene, e affidarsi a concetti per lo più vaghi, molto spesso vuoti, scanditi attraverso slogan, frasi fatte e luoghi comuni che possono avere un impatto positivo sulla folla quando si è sul palco per un comizio ma non quando si è chiamati ad assumere responsabilità da far tremare le vene e i polsi?
E attenzione, perché la nostra non è una riflessione solo italiana, visto che la sinistra, o sedicente tale, è tornata al governo in numerosi paesi europei, ma in nessuno di essi ha davvero influito sulle condizioni di disagio e arretratezza sociale e civile in cui versano milioni di persone, avendo eliminato dal proprio programma, e verrebbe da dire dal proprio patto costitutivo, il concetto stesso di essere umano.
Sono i frutti avvelenati del liberismo e della distorta Terza via blairian-clintoniana, certo, ma è anche, se non soprattutto, colpa di un clima sociale al quale la sinistra ha preferito uniformarsi anziché combatterlo, rinunciando progressivamente a tutto ciò che l’aveva distinta storicamente dalla destra, fino a sprofondare in un cinismo indistinto e indeterminato guidato unicamente da ambizioni di potere e di prestigio, di carriera e di poltrona, inquinando quell’immagine di limpidezza e di onestà che l’aveva sempre caratterizzata nel corso della sua secolare vicenda storica.
E ribadiamo: non si tratta di un caso solo italiano, anche se in Italia, essendosi dovuta confrontare con le storture e i mali del berlusconismo, ha impiegato meno tempo a degenerare e snaturarsi; si tratta di un problema europeo che coinvolge quasi cinquecento milioni di cittadini e ha favorito il dilagare, purtroppo al momento inarrestabile, delle peggiori forme di populismo e nazionalismo xenofobo, di regressione sul piano dei diritti e delle tutele sociali, di scomparsa dall’orizzonte di qualunque collettività di donne e uomini che si confrontano nel quadro politico di una visione volta a valorizzare la dignità del lavoro, in un processo di robotizzazione degli esseri umani che ha, di fatto, sfregiato le magnifiche costituzioni elaborate all’indomani del secondo conflitto mondiale e rinchiuso le persone in un recinto di paure e incertezze, di ansie e drammi sociali, più o meno vasti, a seconda delle condizioni economiche e del livello culturale.
In poche parole, si è rotto l’ascensore sociale e la sinistra, anche quando è stata al governo, si è ben guardata dal rimetterlo in funzione, cedendo di fronte all’ideologia thatcheriana secondo cui la povertà è un disonore e ciascuno si deve arrangiare come può perché “la società non esiste” e contano unicamente gli individui presi singolarmente.
Peccato che, così facendo, si sia rotto non soltanto l’ascensore sociale ma anche qualunque presupposto di una convivenza civile fra le persone che, non a caso, quando va bene, diffidano le une delle altre; quando va male, persino la lite più banale può trasformarsi in tragedia, come testimonia la dissoluzione di decine di nuclei familiari e i numerosi casi di delitti per futili motivi fra vicini che, magari, avevano discusso a causa del volume troppo alto di uno stereo.
Se a ciò aggiungiamo la portata innovativa e rivoluzionaria delle migrazioni di massa dall’Africa e dai Balcani, frutto a loro volta del mutamento degli equilibri geopolitici mondiali, non possiamo sorprenderci dell’impetuosa ascesa dei fenomeni disgregativi e dei movimenti che hanno eretto il regresso e la chiusura delle frontiere sociali e civili come propria bandiera. Non solo, ma per quanto aberranti, va dato atto ai suddetti movimenti di aver avuto il merito di presentare agli elettori idee chiare e comprensibili, facendo facilmente breccia nel vuoto di una società priva di punti d’appoggio, di esempi, di modelli, di punti di riferimento e, quel che è peggio, di una sinistra ancora in grado, ancora desiderosa di svolgere fino in fondo il proprio mestiere.
Per questo ci spiace, ma non ci sorprende affatto, che qualcuno a sinistra abbia pensato bene di tracciare l’elogio della “società liquida” e dei suoi disvalori, presentandoli ai cittadini come un insieme di virtù salvifiche e nascondendone gli effetti devastanti, ben sapendo di star parlando non più a un popolo ma a un pubblico, non più a una comunità in cammino ma una massa indistinta di persone sole e spaventate, costrette a fare i conti con una falsa modernità carica di contraddizioni e sempre più in difficoltà nel far quadrare i conti di un bilancio familiare allo stremo.
E qui veniamo al caso italiano, ai rischi cui stiamo andando incontro, all’ascesa dirompente e apparentemente irrefrenabile di un leader che ha compreso meglio di altri il momento storico che stiamo vivendo e lo ha saputo interpretare in tutto e per tutto, populismo e dissoluzione dei partiti compresi.
Perché questa è la vera dimensione, etica e politica, del nostro tempo: un tempo fuori dal tempo, privo di spazi condivisi, privo di idee comuni, privo di qualsiasi aspetto che si richiami anche solo lontanamente al valore della collettività e del confronto. Lo dimostrano i dibattiti cui assistiamo nelle aule parlamentari, lo dimostrano le continue scissioni che stiamo vedendo tanto nei partiti quanto nei movimenti, lo dimostra il fatto che, in realtà, non esistono più partiti veri: al massimo, si tratta di comitati elettorali del leader; il che, a pensarci bene, è la negazione stessa dell’articolo 67 della Costituzione, la negazione della democrazia rappresentativa, la scomparsa del parlamentarismo in nome di una sorta di mediocre presidenzialismo di fatto, abborracciato e privo di un’effettiva fase costituente come quella che visse la Francia di De Gaulle nel passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica.
E così si procede a fari spenti, brancolando nel buio, sommersi da una miriade di promesse irrealizzabili e mirabolanti dichiarazioni d’intenti, quasi offensive per la loro pochezza, per la loro carenza contenutistica e programmatica, per la loro impossibilità attuativa.
Assistiamo, tanto a destra quanto a sinistra, alla fase terminale di un processo storico di distruzione della politica avviato ai tempi di Mani Pulite, protrattosi lungo tutta l’epopea berlusconiana e giunto ormai a una mesta conclusione, con l’annullamento di ogni differenza, l’uniformazione dei linguaggi, la perdita di senso delle parole e la sostituzione delle idee e dei valori con un vago ciarlare del nulla, non sapendo minimamente dove condurre una nave che sta imbarcando acqua da tutte le parti.
In tutto questo sfacelo, ci vorrebbe una sinistra vera, una sinistra che la smettesse di vergognarsi di essere tale, una sinistra che si prendesse cura delle categorie sociali più deboli e non le trasformasse in spot pubblicitari allo scopo di strappare qualche effimero applauso. Una sinistra che riscoprisse il senso della comunità e l’importanza di partiti contrari non alle ambizioni personali dei singoli ma ai leaderismi sfrenati dei singoli che finiscono col nuocere alla collettività. Una sinistra che spronasse i sindacati e rinascesse anche all’interno di essi, perché ciò che sta accadendo all’interno della CGIL è forse ancor meno edificante di ciò che abbiamo visto nell’ultimo anno nel PD. In sintesi, una sinistra con delle idee di sinistra, capace di tornare a declinare il concetto di austerità con le parole di Berlinguer e quello di uguaglianza con le parole di Gramsci e dei milioni di donne e uomini che lungo tutta la Penisola si sono battuti, spesso pagando con la vita, per i propri diritti.
Perché l’uniformità, la massificazione e il conformismo sfrenato possono andar bene per chi ha come unico orizzonte, come unica finalità nella vita quella di assicurarsi una poltrona e conservarla il più a lungo possibile, ma sono del tutto insufficienti a interpretare la complessità di un contesto socio-economico tra i più difficili di sempre, di una Nazione straziata da troppe macerie morali e da troppe ferite invisibili ma brucianti, di un’Unione Europea avida ed egoista, di una società sempre più cinica e disperata e di una stagione nella quale le disuguaglianze dilagano al pari di formazioni barbare il cui unico scopo è quello di tornare a un’Europa di stampo hitleriano.
L’esito di quelle scelte lo conosciamo già, lo abbiamo letto sui libri di storia e ce lo hanno raccontato i nostri padri e i nostri nonni. E abbiamo l’atroce sospetto che sotto forma di farsa potrebbe essere ancora più traumatico di quanto non lo fu sotto forma di tragedia.


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