La vera strategia del Cavaliere

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Come abbiamo sottolineato più volte, il vero avversario di Renzi è Renzi stesso. Innanzitutto il suo carattere: troppo spigoloso per il segretario di un partito-polveriera qual è l’attuale PD, per giunta reduce dal disastro dei centouno e da quasi un anno di sostegno a un governo che finora non si è proprio distinto per la limpidezza della sua azione. In secondo luogo, la scarsa esperienza dei suoi collaboratori più fidati: ragazzi e ragazze giovani, freschi, pieni di entusiasmo e di idee ma assai poco avvezzi a confrontarsi con le mille trappole di cui sono disseminati i palazzi del potere romano. In terzo luogo, e qui sta il nocciolo della questione, la sua avversione nei confronti di Roma. Se potesse, infatti, siamo certi che Matteo Renzi riporterebbe la capitale a Firenze, come dimostra la sua scelta (peraltro discutibile) di rimanere sindaco e sdoganare, di fatto, la brutta abitudine dei doppi incarichi, il suo rifiuto di assumersi in prima persona la responsabilità di guidare l’esecutivo e il suo scarso entusiasmo persino di fronte a un’ipotesi intermedia, ossia puntellare il governo con l’innesto di personalità a lui vicine in ruoli chiave. Perché Renzi di Roma e dei suoi ritmi non si fida. E non ha tutti i torti: non c’è, difatti, una sola città d’Italia che sia più distante dal suo modo di essere, di concepire la vita e la politica e anche di rapportarsi con il prossimo. Roma è avvolgente, levantina, ricca di tavoli, convegni, congressi, discussioni e dialoghi ovattati; Renzi, al contrario, è impetuoso, furente, dinamico, fosse per lui tutto si deciderebbe in cinque minuti e al diavolo i riti, le liturgie, i cerimoniali, talvolta persino e il garbo e il bon ton, considerati dal sindaco necessari ma non sempre indispensabili.
Peccato che il mondo, e in particolare il mondo della politica, non funzioni così. Peccato che le riforme costituzionali, essendo la nostra Carta un testo rigido, necessitino di una maggioranza molto ampia e trasversale e di tempi doverosamente lunghi. Peccato che la stessa legge elettorale non si possa riscrivere in quindici giorni, come vorrebbe Renzi, perché gli emendamenti (quasi quattrocento) devono essere comunque discussi e il Parlamento ha anche altre questioni, non meno importanti, di cui occuparsi. E peccato, infine, che lui abbia scelto di svolgere il mestiere che meno gli si addice, ossia quello di segretario di un partito che – come detto – avrà pure mille difetti, primo fra tutti la sua eccessiva balcanizzazione, ma non è e non sarà mai un partito in stile Forza Italia o Movimento 5 Stelle, senza strutture, senza assemblee, con luoghi d’incontro più virtuali che reali e senza una tradizione culturale e valoriale che affonda le proprie radici negli anni eroici della Resistenza e della lotta di liberazione dal nazi-fascismo.
In poche parole, più passa il tempo, più Renzi dimostra di essere l’uomo sbagliato nel posto sbagliato al momento sbagliato.
E qui, con la sua astuzia e il suo fiuto luciferino, si inserisce il Cavaliere di Arcore, condannato in via definitiva per frode fiscale, ormai prossimo agli ottant’anni e all’affido ai servizi sociali, ma ancora lucido e capace di danzare al centro di una scena politica mai così confusa e irrazionale.
Che a Berlusconi Renzi vada particolarmente a genio è cosa nota; che veda in lui addirittura il suo possibile erede politico è improbabile perché il Cavaliere sa benissimo che, per quanto balcanizzato e diviso pressoché su tutto, nessuno nel PD potrebbe mai avallare una sola delle riforme che piacciono a lui (prima fra tutte quella della giustizia) e che lo stesso Renzi, se pure fosse disposto ad accordagli qualche piccola concessione in nome del suo innato pragmatismo, preferirebbe fermarsi davanti alle mostruose resistenze interne cui si troverebbe a far fronte. Tuttavia, Berlusconi sa anche che, nonostante tutto, il suo carisma e il suo piglio decisionista esercitano sul giovane sindaco, nato politicamente in era berlusconiana e da sempre immerso nella cultura e nei linguaggi tipici di una società liberista, un fascino implicito e forse persino inconscio, ma comunque presente e dirompente, al punto che questi è arrivato a commettere l’imperdonabile errore di definirsi di fronte alle telecamere in “profonda sintonia” con un personaggio dal quale, per mille motivi, avrebbe fatto bene a tenersi alla larga.
Per questo lo elogia continuamente: perché, conoscendone l’inesperienza, lo vuole utilizzare per condurre al collasso definitivo quel poco che resta della sinistra e riprendersi poi comodamente Palazzo Chigi, lanciando, al momento opportuno, la figlia Marina.
E Renzi sta abboccando, vittima del suo orgoglio, della sua impressionante considerazione di sé ma, soprattutto, della sua scarsa attitudine a fidarsi dei consigli di chi ne sa di più, se non altro perché potrebbe essere suo padre, perché ne ha viste a migliaia, perché con Berlusconi si è già scottato in passato e vuole metterlo amichevolmente in guardia dalle innumerevoli mine che egli è capace di disseminare sul cammino dei suoi interlocutori. Niente da fare: Renzi è Renzi, se non recita la parte del “rottamatore senza macchia e senza paura” perde consensi e visibilità e così va avanti, senza dar retta all’ex presidente Cuperlo né alla minoranza interna, le cui osservazioni sono state spesso considerate strumentali e come tali liquidate in pochi minuti; ma, soprattutto, senza dar retta alle decine di opinionisti, giuristi e costituzionalisti che da settimane stanno tentando disperatamente di fargli capire che l’Italicum non è il suo trionfo ma il colpo di grazia di Berlusconi alla sinistra, oltre ad essere una pessima legge a forte rischio di incostituzionalità in quanto, nel complesso, irrispettosa della sentenza della Consulta.
Renzi deve far vedere che “fa”, che è attivo, che si muove e così lancia gli hastag su Twitter, risponde via Facebook e propone una riforma del Senato che, se vogliamo, è ancora più cervellotica e irrealizzabile di quella prevista dall’Italicum per la Camera, con questo Senato dei sindaci che ha indotto Mario Dogliani (professore di Diritto costituzionale all’Università di Torino nonché membro della commissione dei 35 saggi allestita da Napolitano con lo scopo preciso di avviare le riforme costituzionali) a dichiarare a “il manifesto”: “La rinuncia all’elezione diretta in favore di un’elezione di secondo grado esce come Minerva dalla testa di Giove, e viene spiegata quasi esclusivamente con ragioni di risparmio economico. Questo Senato costerebbe zero euro, dice Renzi. È una cosa avvilente. Come si fa a proporre che in cambio di trecento stipendi, che peraltro si potrebbero benissimo ridurre tutti, aboliamo una camera? È un modo di ragionare persino offensivo”.
Il guaio è che il giovane sindaco di Firenze non gode, politicamente parlando, di ottima salute, avendo suscitato attese messianiche che nessuno, in qualsiasi fase storica, compresa la più florida, sarebbe in grado di non deludere. E Berlusconi lo sa, e ovviamente non fa nulla per venirgli incontro; anzi, ne solletica lo smisurato orgoglio con le continue laudi sue e dei suoi sostenitori più accaniti, lo definisce un interlocutore credibile, un uomo nuovo, un pragmatico, un esponente col quale finalmente si può ragionare, con la speranza, peraltro ben riposta, che milioni di elettori della sinistra fuggano, disgustati, verso Grillo, SEL o l’astensione.
Infine, c’è la sfida decisiva: quella riguardante il governo. E qui Renzi è davvero in difficoltà, perché se inserisse i suoi ministri e agevolasse la nascita di un Letta bis, stipulando con gli altri partiti di questa strana maggioranza un patto di governo, sarebbe poi costretto a rinunciare al cannoneggiamento continuo del Premier e dell’esecutivo; il che, in vista delle Amministrative e delle Europee, non gli conviene. Se decidesse di rompere e tornare al voto, oltre a indurre Napolitano alle dimissioni e a far scatenare una tempesta sui mercati che potrebbe portarci al default, si vedrebbe costretto ad affrontare la competizione con l’odiato proporzionale, con la prospettiva, se va bene, di dover poi guidare un governo di larghe intese con Berlusconi e Alfano. Se, infine, dovesse prendere il coraggio a quattro mani e decidere di assumere in prima persona la guida dell’attuale esecutivo, nulla e nessuno potrebbe impedire a Berlusconi non di entrare al governo con lui ma di concedergli un appoggio esterno “in nome dei supremi interessi del Paese”, garantendosi la possibilità di presentarsi agli elettori come partito “di lotta e di governo” e assistendo compiaciuto all’ovvia insurrezione via web dei militanti del PD (forse addirittura più agguerrita di quella cui abbiamo assistito nei giorni dell’elezione del Capo dello Stato), all’assalto sdegnato della stampa di sinistra e alla fine ufficiale della presunta “diversità renziana” rispetto al sistema.
Questa è la vera strategia del Cavaliere: utilizzarlo, normalizzarlo e, infine, batterlo per interposta persona, condannando il PD alla sconfitta e, quasi sicuramente, a una serie di dolorosissime scissioni, oltre che alla rottura definitiva con quella sinistra che molti definiscono “radicale” e che, invece, servirebbe come il pane ad una Nazione mai come ora bisognosa di giustizia, uguaglianza, diritti e riconoscimento della dignità del lavoro e delle persone.
Senza contare la gioia di una cospicua parte del mondo imprenditoriale che non vede l’ora di sbarazzarsi delle ultime sacche di resistenza per imporre i propri contratti in stile Electrolux, licenziare chi dissente approfittando dello smantellamento dell’articolo 18 e ridurre al silenzio, o comunque all’irrilevanza, i sindacati.
Siamo, in poche parole, di fronte al collasso definitivo del sistema, frutto di vent’anni di predominio del Cavaliere e dei troppi errori della sinistra ma, più che mai, della prepotente e inarrestabile affermazione dei dogmi del liberismo a scapito di quelle idee progressiste e keynesiane che lo stesso PD di Renzi sembra considerare oramai obsolete.
Peccato che tutti questi signori non abbiano fatto i conti con un’ipotesi ancora più allucinante, ossia un trionfo di Grillo che, con l’efficacissimo slogan “tutti a casa” gridato alla sua maniera in ogni angolo d’Italia, potrebbe convogliare su di sé tutta la rabbia, la disillusione e il disincanto che bruciano nel Paese e ne devastano il tessuto culturale, morale, sociale e civile. E allora sì che il default sarebbe assicurato.


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