Frequenze al palo

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Come prima, più di prima», così diceva un famoso brano musi­cale della fine degli scorsi anni Cin­quanta. Ben si addi­ceva alla vicenda della gara per le fre­quenze tele­vi­sive digi­tali: ferma al palo. Mal­grado qual­che enne­sima ras­si­cu­ra­zione del vice-ministro Catri­calà, il com­mis­sa­rio euro­peo Almu­nia ha chia­rito nei giorni pas­sati che Bru­xel­les è tut­tora in attesa delle regole dell’asta da parte del governo ita­liano. Ecco per­ché è dove­roso ripar­lare del pro­blema, già affron­tato diverse volte da «il mani­fe­sto». Siamo di fronte, per dirla senza giri di parole, ad un enne­simo buco nero della sto­ria ita­liana. Per­ché i conti non tor­nano. Come mai que­sto incre­di­bile anda­mento lento? Il con­flitto di inte­ressi, è vero, ha qui un tor­nante cru­ciale. Ma forse non sarebbe suf­fi­ciente a chia­rire i misteri di una sto­ria incre­di­bile. Rica­pi­to­liamo bre­ve­mente i fatti. Dal 2009 va avanti il ping pong con l’Europa sulla pro­ce­dura di infra­zione con­tro la legge Gasparri, la nor­ma­tiva che sancì in modo defi­ni­tivo il pre­do­mi­nio di Media­set. Una delle vie d’uscita era pro­prio la messa a gara delle fre­quenze di alcuni lotti con il pas­sag­gio alla tec­nica nume­rica. E dopo pole­mi­che assai aspre final­mente venne varata la norma, con il governo Monti. 2011–2014, tre anni che con le odierne tec­no­lo­gie signi­fi­cano dieci volte tanto. Eppure, si poteva avere un netto gua­da­gno per lo stato. Come mai, dun­que? Ci sono almeno tre indizi, che fanno cer­ta­mente una prova.

Innan­zi­tutto, con scarso cla­more — ma con effetti certi — il mini­stero dello svi­luppo ha asse­gnato il cosid­detto quinto mux (ter­mi­no­lo­gia del lati­no­rum digi­tale, che signi­fica gruppo di canali, almeno cin­que) a Media­set. Era ini­zial­mente pre­vi­sto per la tra­smis­sione tv sui tele­fo­nini, insuc­cesso scritto nel destino. Quindi, Rai e Media­set hanno già il mas­simo dei mux per­messi dalla Com­mis­sione euro­pea nell’avviare la pro­ce­dura di infra­zione. T-media, pur mal­trat­tata, si accon­tenta; Sky raz­zola altrove. Eccolo, il secondo indi­zio: la gara smuo­ve­rebbe le acque prima dell’ora x della sca­denza della con­ces­sione di ser­vi­zio pub­blico (2016), cui ambi­scono pro­ba­bil­mente altri ope­ra­tori, pro­prio a par­tire dal gruppo di Mur­doch. Gli affari sono affari, e il silen­zio di oggi potrebbe avere qual­che uti­lità un domani. Infine, qual­cuno imma­gina di pri­va­tiz­zare alcune reti della Rai e in tale logica è meglio pre­ser­vare lo sta­tus quo.

Se andrà diver­sa­mente si chie­derà per­dono alle let­trici e ai let­tori. Magari. In verità, il puzzle si com­prende anche se si con­si­dera il sot­to­fondo cul­tu­rale ita­liano, assai con­ser­va­tore nei riguardi dell’innovazione e sog­gio­gato dal fascino discreto della vec­chia tele­vi­sione gene­ra­li­sta. Che pesa sulla scena poli­tica ed è a sua volta pro­fon­da­mente con­di­zio­nata. Eppoi, il rilan­cio di Ber­lu­sconi fa il resto.

Così, la colos­sale presa in giro pro­se­gue, chissà fino a quando. Del resto, una recente sen­tenza della corte fede­rale degli Stati uniti nel District of Colum­bia ha messo in discus­sione la neu­tra­lità della rete (l’accesso libero e aperto), impo­nendo costi di con­nes­sione altis­simi a chi ne fa un ampio uso con il tra­sfe­ri­mento di video. Come ha notato nell’ultimo numero del «Cor­riere delle Comu­ni­ca­zioni» il com­bat­tivo ex con­si­gliere dell’Agcom Nicola D’Angelo, l’astro nascente della pro­du­zione non omo­lo­gata di con­te­nuti dell’era digi­tale «Net­flix» avrà pro­blemi molto seri. A toc­care l’ordine costi­tuito ci si rimette sem­pre. Lì tycoon tele­vi­sivi e tele­fo­nici e magari major del cinema, qui i vec­chi orti­celli bloc­cano le novità ed esor­ciz­zano il rischio che appaia qual­che altro com­pe­ti­tore. Il che rimanda ancora una volta alla neces­sità di abro­gare la citata legge Gasparri, la cami­cia di forza del sistema.

http://ilmanifesto.it/frequenze-al-palo/


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