Enrico Letta tra Moro e De Gasperi

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Tralasciando le considerazioni sugli “attributi” e le insulse polemiche che ne sono derivate, è opportuno invece occuparsi della figura del Presidente del Consiglio. Perché Enrico Letta, piaccia o non piaccia, pur essendo alla guida di un governo difficile e faticoso, tutt’altro che esaltante dal punto di vista politico e senz’altro poco conveniente dal suo punto di vista personale, sta dimostrando all’intera comunità nazionale di possedere quel coraggio che troppe volte è mancato, in questi anni, alla sinistra.

La sfida di Letta, infatti, va al di là di una mera resistenza a Palazzo Chigi né può essere intesa come una costante quanto estenuante trattativa con i vertici di un alleato di governo oramai in frantumi e destinato, a quanto pare, a scindersi entro l’anno. La sua battaglia, al contrario, è quella di un uomo che ha dalla sua il coraggio dell’analisi e la forza delle idee, la capacità di osservare il mondo nella sua globalità e l’europeismo necessario, anzi indispensabile, per porre le speranze di un’Italia allo stremo nell’unico contesto in grado di trasformarle in proposte concrete e dare un senso a un futuro sempre più incerto.

Non a caso, in una lettera indirizzata all’inserto domenicale del “Corriere della Sera”, il Premier ha affermato: “Ci tormentiamo, dividendoci, con la presunta contesa tra << princìpi>> e <<interessi>>, dimenticando che essi – come ci ha ricordato qualche tempo fa Eugenio Scalfari – viaggiano insieme. Perché i primi, senza ancoraggio alla realtà, sono velleità utopiche, mentre i secondi, in mancanza del senso di una missione condivisa, perpetuano il privilegio ed esasperano la polarizzazione della ricchezza”.

Ora, venendo ai fatti concreti, saremmo ipocriti se negassimo che la Legge di Stabilità varata dall’esecutivo abbia bisogno di una revisione complessiva e dettagliata; e saremmo ancor più ipocriti se asserissimo di aver condiviso tutte le scelte assunte finora da queste larghe intese senz’anima, senza identità, senza un orizzonte compiuto e, a tratti, addirittura senza politica. Tuttavia, se nonostante le perplessità e l’iniziale scetticismo, abbiamo deciso di accordare una convinta fiducia a Letta è proprio perché sappiamo che di lui, a differenza di alcuni suoi momentanei compagni di viaggio, ci possiamo fidare; perché trasmette l’idea di avere ben chiaro il quadro complessivo della realtà; e, soprattutto, perché rivediamo in lui le migliori caratteristiche di quel cattolicesimo democratico che, collocandosi stabilmente a sinistra, ha consentito al nostro Paese prima di diventare una potenza mondiale e poi di entrare nell’euro, coronando quel sogno visionario che animò i fautori di un progetto in cui pochi credevano di fronte alle macerie fumanti di un’Europa squassata dai totalitarismi e messa in ginocchio dalla fame e dalla disperazione.

Eppure fu proprio allora che qualcuno – da De Gasperi a Schuman, da Adenauer a Spinelli – ebbe il coraggio di credere in un sogno apparentemente irrealizzabile, di trasformare uno scenario di guerra in un duraturo contesto di pace, di rendere un’unione fino a quel momento unicamente commerciale e d’interessi una grande unione di idee, popoli, bandiere, all’insegna della condivisione e della prospettiva di costruire insieme qualcosa di più grande, qualcosa di mai visto prima, una casa comune destinata ad accogliere generazioni come la mia che in quegli anni non erano nemmeno nella mente del Signore.

E ci riuscirono, perché ebbero la saggezza e la determinazione che consentì loro di non fermarsi, di ascoltare il prossimo, di coinvolgere chi nutriva delle comprensibili perplessità e, infine, di condurre in quest’orizzonte sconosciuto e pieno di incognite non dei singoli uomini senza radici né punti di riferimento bensì intere comunità in cammino, collettività in grado, all’epoca, di tenersi per mano e contribuire al riscatto dell’umanità dopo la stagione della barbarie e dell’abisso.

Può, dunque, Letta porsi nel solco della tradizione dei grandi statisti sopra citati? A nostro giudizio sì, perché rivediamo in lui alcune delle migliori caratteristiche di due dei suoi maestri, Prodi e Andreatta; prima fra tutte il rifiuto fermo e incondizionato di ogni populismo, di ogni cedimento alla politica degli slogan e delle frasi fatte, dei luoghi comuni e delle sparate fini a se stesse che, purtroppo, sembra essere la cifra distintiva di questo tempo senza passioni. E poi perché ci dà l’impressione di aver compreso prima e meglio di altri la necessità di ricostruire uno schieramento di centrosinistra forte e autorevole, fondato non sull’assenza di ideologie (follia senza senso che, purtroppo, domina il dibattito politico del nostro Paese da almeno un ventennio) ma su una nuova ideologia dei diritti e delle responsabilità comuni: dall’ambiente all’immigrazione, dall’integrazione all’accoglienza, dalle nuove tecnologie alle nuove forme di welfare, tutela e sviluppo economico; senza dimenticare la buona occupazione per i giovani, l’affermazione dei diritti delle donne e la difesa di ciò che siamo stati e degli insegnamenti di chi ci ha preceduto per spalancare le porte a un avvenire ugualmente ignoto ma indubbiamente affascinante. In poche parole, l’idea che possa esistere oggi una sinistra moderna, in grado di riscoprire e trasformare in una concreta proposta di governo l’ideale olivettiano della città a misura d’uomo, riscattando il dolore e la sofferenza di un’umanità sconvolta da una tragedia non meno atroce quale è stata l’ascesa prepotente e non sufficientemente contrastata del liberismo selvaggio.

E qui rivediamo Aldo Moro, la sua profondità, il suo sguardo sempre rivolto al domani, la sua forza d’animo nel perseguire un ideale di giustizia ed uguaglianza che ha animato la sua instancabile lotta politica per fornire un orizzonte di progresso a una democrazia, a suo dire, incompiuta.

Per questo, anche chi come me viene da tutt’altra storia, ha studiato da tutt’altri maestri e si è formato sulla base di ideali differenti ma, di fatto, complementari, può trovare un senso, e direi quasi una missione etica, nel sostenere non un uomo, né tanto meno un governo che è e deve rimanere una parentesi, bensì un progetto diverso di società che sappia parlare alle generazioni che vivranno ancora più di noi questo secolo di sfide e trasformazioni inimmaginabili.

Perché ciò accada, però, dobbiamo fare appello ai versi dell’“Itaca” di Kavafis: “Quando ti metterai in viaggio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga / fertile in avventure e in esperienze”. E qui tornano i “pensieri lunghi” di Berlinguer e il cerchio si chiude.


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