Perde Silvio, vince Giorgio. Il caffè del 3 ottobre

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“L’era di Silvio Berlusconi si è chiusa con l’ultimo malinconico bluff”, Massimo Franco, per il Corriere della Serra.”L’ultima giravolta di Berlusconi con l’annuncio a sorpresa di voler votare sì alla fiducia vuole coprire una bruciante sconfitta politica e finisce con il metterla a nudo plasticamente”, Roberto Napoletano, sul Sole24Ore. “Il sospirato e pluriannunciato 25 luglio c’è stato e non c’è stato, e si è frammisto all’8 settembre della destra italiana: tutti a casa (Letta)”, Giuliano Ferrara, il Foglio. “All’ora del pranzo si compie la tragedia di un uomo ridicolo. Berlusconi poteva scegliere una fine drammatica da Caimano, con paesaggi in fiamme alle spalle, oppure una farsesca.Ha scelto con coerenza la seconda”,Curzio Maltere, per Repubblica

Guai ai vinti e il vinto è uno, si chiama Silvio Berlusconi. Oggi i giornali lo mettono a testa in giù, come Benito Mussolini. Analizzato, pesato, confrontato  fra  colleghi, quel gesto finale del Cavaliere, l’ingresso nell’emiciclo del Senato quando il dibattito sulla fiducia stava per concludersi, il suo sì che ribaltava mesi di annunci, quel “grande”, pronunciato come un sospiro ma letto sulle labbra del Presidente del Consiglio, appariva come l’epitaffio finale su 20 anni di dominio della destra e, con la destra, sulla politica italiana.

“La sconfitta di Berlusconi”, Repubblica. “Fiducia a Letta e il PDL si spacca”, La Stampa. “Caccia ai Berlusconiani”, a metà tra un guai ai vinti e un’invocazione di aiuto, sul Giornale di Olindo Sallusti. “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”, Corriere della Sera. “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”, il Sole24Ore. “La buffonata”, Il Fatto. Quando la satira si muove a pietà allora è proprio finita. Altan mostra un cavalier Banana in lacrime che si china e invoca: “Oh Dudù”, il cane, indifferente, risponde: “chi sei?”. Giannelli ricorda la storica data: “mercoledì 2 novembre”, da Angelino “il diversamente berlusconiano” a Silvio “il diversamente Berlusconi”.

Chi ha vinto? Avrei detto il Paese, se la rottura fosse avvenuta in modo netto, con una separazione dei destini tra le due destre nel voto di fiducia. Il Paese, perché l’Italia ha bisogno di una destra e da un secolo ce l’ha e non ce l’ha. Interpretata solo in parte da fascismo, democrazia cristiana e berlusconismo. Una destra che sarebbe potuta emergere, che potrebbe ancora emergere, se politica economica mercatista e liberista, conservatorismo sociale, difesa di valori tradizionali si separassero dall’attacco eversivo allo stato di diritto, dal rifiuto della democrazia liberale, in nome di uno e del suo conflitto di interessi. Purtroppo la rottura si è consumata a metà. I gruppi “scissionisti”, o “lealisti” nei confronti del governo, Cicchitto a parte, sembrano ridursi a una pattuglia di cattolici integralisti come corona a comunione e fatturazione. Modesto ltentativo di riposizionarsi nel tempo di Papa Bergoglio. E se Alfano vuol fare il gatto con Berlusconi, deve guardarsi dal topo, che, anche morente, potrebbe tirarlo con sé verso la fine.

Letta ha vinto? La partita del premier è stata diversa. Devo ammettere che in aula, ieri mattina, non avevo capito. Il suo discorso mi era parso debole : una difesa puntigliosa dell’azione di governo, nel tentativo di celare sotto il tappeto troppe incertezze, un passaggio su Berlusconi troppo rapido e letto a voce più bassa e in fretta, solo un accenno alla legge elettorale per tornare, come se nulla fosse successo, sulla promessa della Grande Riforma, quella della Costituzione. Non è così che si fa – mi ero detto- ,se si vuole approfondire il solco tra Alfano e Berlusconi, se si vuole assicurare al governo un secondo tempo, all’insegna di un maggiore realismo e di scelte più nette. Ma Enrico Letta e dietro di lui sempre Napolitano, parlavano piuttosto al Pd, alla sinistra tutta, al Movimento 5 Stelle, a quella destra che magari vorrebbe una diversa politica economica. Senza preoccuparsi troppo di Berlusconi né di offrirgli il destro per quell’ultima piroetta.

Scrive Massimo Franco: “sono loro, esponenti trasversali della crisi, gli sconfitti. E a vincere è chi vuole soddisfare la fame di stabilità dell’opinione pubblica e la richiesta di certezze che Europa e mercati finanziari giustamente pretendono”. Naturalmente, non mi sento affatto parte del “partito trasversale della crisi”, ma penso che realismo e intelligenza del futuro consiglino di lasciare che i conflitti si esprimano, penso che si debba rispondere alla crisi della politica e alla paralisi dell’amministrazione con la buona politica, con la partecipazione dei cittadini, con una riforma, direi con una rivoluzione, se non temessi di spaventarvi, che sottragga l’Italia alla morsa di uno stato arcaico e di partiti stato-centrici, per dirla con Barca.

Invece ieri ha vinto (una battaglia non la guerra) il partito di chi aborre il conflitto e lo vuole prevenire, di chi “con viva e vibrante” pervicacia pensa che la Repubblica si riformi dall’alto. Ieri con Berlusconi, promosso statista e pafificatore, domani con l’intesa tra Enrico e Angelino, e sempre, fra loro, lo zio Gianni, a indicare che le lobbies trasversali sono la costante della storia patria. Democristiani? Non direi. Non vedo Moro né Fanfani né Donat Cattin. È una cultura dorotea che si sposa con l’approdo finale del comunismo italico,  soffuso di storicismo  e permeato dall’organicismo Giovanni Gentile. A far da collante, a dettare entro quali parallele debba compiersi il destino della nostra politica, l’Europa dei banchieri. Scrive Draghi “Il messaggio che i mercati lanciano è chiaro: stabilità e riforme (del mercato del lavoro)”. Dixit.

Scrive Rodotà: “il Pd ha mostrato una gran debolezza, considerando come unico e supremo bene il solo fatto che il governo riuscisse a durare. In questo modo la politica è stata privata di ogni significato, ridotta a pura schermaglia (e) si è aggrappata a un immaginaria grande politica costituzionale”. La Grande Riforma come toccasana e riparo per le miserie di una modesta navigazione governativa. Sempre Rodotà su Repubblica: “Un minimo di moralità pubblica, direi quasi di comune senso del pudore, imporrebbe di non nominare più, in un momento così delicato, i cambiamenti costituzionali, per i quali mancano le condizioni essenziali: un comune sentire dei soggetti politici che a ciò si impegnano e una loro piena legittimazione”. Non ho paura delle riforme, neppure di quelle costituzionali, ma trovo impudico che le si sventolino per nascondere i fallimenti della politica e per sostituire con un dover essere la paziente analisi (per avviare un cambiamento vero) della paralisi economica, politico, amministrativa del’Italia, dopo 20 anni di bugie.

da corradinomineo.it


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