Mediterraneo, il destino delle tre sponde

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Se ancora ce ne fosse bisogno, le drammatiche vicende mediorientali delle ultime settimane costituiscono la prova inoppugnabile del mutamento degli equilibri globali, con il definitivo passaggio dal bipolarismo bilanciato della seconda metà del Ventesimo secolo al multipolarismo incerto e non ancora pienamente definito di questo primo scorcio del Ventunesimo secolo.

Per comprendere quanto sia drammaticamente vero tutto ciò, basta leggere un articolo apparso nei giorni scorsi sul “New York Times”, intitolato “I fallimenti della diplomazia”, nel quale si raccontano, tra le altre cose, gli sfortunati e, a dire il vero, un po’ grotteschi tentativi di mediazione portati avanti al Cairo dai due senatori inviati da Obama: i repubblicani John McCain e Lindsey Graham, entrambi molto esperti di questioni militari. Scrive, infatti, il noto giornale americano: “Quando i mezzi d’informazione filogovernativi egiziani hanno fatto trapelare la notizia di un imminente comunicato del governo in cui si dichiarava il fallimento degli sforzi diplomatici, i funzionari stranieri sono rimasti sorpresi e hanno cercato di fare di tutto per impedirne l’uscita. Ma senza successo. “La fase degli sforzi diplomatici si è conclusa”, recitava il comunicato. Le manifestazioni erano definite “non pacifiche” e i Fratelli musulmani indicati come i responsabili delle imminenti violenze”. E aggiunge: “Statunitensi ed europei erano furibondi, sentivano di essere stati ingannati e manipolati. “Sono stati usati per giustificare la violenza”, ha dichiarato Amr Darrag, il capo negoziatore islamista. “Sono stati coinvolti solo perché il governo golpista potesse dichiarare falliti i colloqui, quando di fatto non c’è stato nessun negoziato”.

Non a caso, l’accusa che molti commentatori hanno rivolto a Obama e ai principali leader europei è proprio quella di essersi mostrati impotenti, incapaci di assumere una strategia chiara e decisa e di coordinare nella regione un intervento di carattere sociale e umanitario prima ancora che politico e militare.

Qualcuno è arrivato addirittura ad accusare Obama di essere un presidente “isolazionista”, interessato unicamente alle vicende interne del proprio Paese e non all’altezza di esercitare quella leadership mondiale che da sempre compete agli Stati Uniti.

Ora, può anche darsi che Obama abbia esitato troppo e commesso errori tutt’altro che irrilevanti (dal sostegno di fatto acritico a Morsi alla mancanza di coraggio nel definire “golpe” il colpo di Stato portato a termine lo scorso 3 luglio dai militari egiziani), ma l’aspetto più rilevante dell’intera vicenda è un altro: quella leadership, quella supremazia planetaria un tempo indiscutibile, oramai gli Stati Uniti non la possiedono più. Meno che mai, poi, la possiede l’Unione Europea: un insieme di nazioni divise e diseguali, oltremodo litigiose, non in grado di definire un percorso comune su nessuna materia, figuriamoci in un ambito delicato e controverso come l’intricatissimo scenario che si sta delineando in Medio Oriente.

Perché questa è la realtà, amara quanto si vuole ma oramai conclamata: gli equilibri internazionali, e più che mai quelli legati allo scacchiere mediorientale, non dipendono più dalle scelte dell’asse euro-atlantico bensì da un complesso insieme di decisioni che vedono in prima fila le potenze emergenti: dalla Cina, destinata a dominare questo nuovo secolo, ai paesi arabi, in grado di supplire con i petrodollari persino alla minacciata cancellazione dei cospicui aiuti economici che gli Stati Uniti erogano ogni anno all’Egitto.

Damasco, Beirut, Tunisi, Il Cairo, Teheran e tutte le altre città del mondo arabo attraversate da venti di rivolta altro non sono, dunque, che le cartine al tornasole di un contesto globale mai sperimentato prima, difficile da accettare per chi era abituato a impartire ordini senza doversi eccessivamente confrontare con il resto del mondo ma al quale dovremo abituarci rapidamente, pena la condanna a un’irrilevanza devastante e definitiva.

Per questo, condividiamo pienamente le cautele espresse da Obama in merito a un possibile attacco militare in Siria (a quanto pare ventilato, nelle ultime ore, insieme al primo ministro inglese Cameron e al ministro degli Esteri francese Fabius); per questo, crediamo anche noi che lo spregevole regime di Assad debba essere rovesciato all’interno del Paese, magari aiutando concretamente i ribelli, stando attenti a non fornire armi e supporti logistici a formazioni militari islamiste che inneggiano alla jihad e alla distruzione dell’Occidente; per questo, infine, non possiamo non condividere l’analisi di quanti, da tempo, mettono in guardia i paesi dell’altra sponda del Mediterraneo, primo fra tutti l’Italia, circa la stretta connessione tra le varie “primavere arabe” e le imponderabili conseguenze che potrebbe avere per il nostro Paese un ulteriore inasprimento delle violenze esercitate da regimi oramai al collasso nei confronti della popolazione civile.

Perché questo è il nostro destino in un mondo senza frontiere: essere noi stessi una frontiera. È uno dei tanti aspetti della globalizzazione, forse il più importante, ma al tempo stesso l’unico che sembriamo rifiutarci di vedere e, soprattutto, di accettare.


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