La seconda fine di un’epoca

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di Roberto Bertoni
Se non torniamo rapidamente ad un dibattito politico maturo, corriamo seriamente il rischio di ritrovarci, tra vent’anni, a scrivere gli stessi articoli di questi giorni, con le stesse considerazioni, le stesse riflessioni e la stessa, innegabile amarezza che ci pervade ormai da mesi, nel crepuscolo di un’epoca quanto mai incerta e priva di prospettive.

L’aspetto più inquietante della vicenda è che ad essere rattristati non sono solo i commentatori più esperti, coloro che per primi compresero e denunciarono i pericoli di questo declino; siamo soprattutto noi giovani, membri della generazione che negli anni di “Tangentopoli” e dell’ascesa di Berlusconi e del berlusconismo andava all’asilo e, dunque, non ha mai avuto la fortuna di vivere in un Paese normale. Personalmente, sono scosso non tanto dai sempre più frequenti paralleli che sento tra allora e oggi quanto dalla tremenda prospettiva che un simile scenario possa ripetersi: che ci si possa cioè ritrovare, nel 2032, a riflettere su un’altra stagione sprecata, tra riforme mancate, governi ballerini, personaggi improbabili, eterne discussioni sul nulla e un senso collettivo di precarietà, incertezza e disillusione.

Se ciò dovesse accadere, e Dio non voglia che accada davvero perché sarebbe una catastrofe, non c’è dubbio che comparirebbero sulla scena nuovi “rottamatori”, pronti a sbraitare che l’intera classe dirigente ha fallito e che bisogna mandare tutti a casa, salvo poi non avere un programma e delle proposte all’altezza per sostituire i “rottamatori” del 2012, che sarebbero costretti a difendersi dal meccanismo infernale che loro stessi hanno generato e difeso, quasi fosse la panacea di tutti i mali.

Così, in una sorta di drammatico gioco dell’oca, torneremmo al punto di partenza, dopo chissà quanti nuovi scandali, quanti nuovi partiti nati e scomparsi nel giro di pochi anni, quante polemiche, quanti insulti, quanti inutili polveroni mediatici e quante occasioni perdute, il che, tradotto in termini brutali, significherebbe giovani costretti ad andare all’estero per trovare un lavoro, declino economico, ulteriore perdita di moralità e di amore per lo Stato e per le istituzioni, degrado sociale, etico e politico e definitiva rassegnazione alla morte delle idee. Già, le idee: sono proprio queste le assenti ingiustificate da troppo tempo. Ciò che manca quasi del tutto alla politica italiana, infatti, non sono certo i soldi ma una visione, un orizzonte, un sogno, un futuro possibile verso il quale tendere e con il quale rinvigorire le speranze oramai inaridite di milioni di persone che, per disperazione, si sono lasciate andare al nichilismo, declinato nelle sue varie forme, più o meno populiste, qualunquiste e demagogiche.

Per questo, per una volta, non sono molto d’accordo con una parte dell’analisi compiuta da Ilvo Diamanti su “la Repubblica” dello scorso 22 ottobre. Diamanti, difatti, ha perfettamente ragione quando auspica che le prossime elezioni siano “costituenti” ma cade, a mio giudizio, in errore quando parla di un necessario passaggio dalla Seconda ad un’ipotetica Terza Repubblica.
Sarebbe bello se fosse così, se questa Seconda Repubblica fosse mai esistita, ma non è così, purtroppo, anche se molti di noi si sono illusi per anni di essere riusciti a lasciarsi finalmente alle spalle un passato tanto ingombrante quanto impossibile da accantonare.

Al contrario, ciò a cui tutti vorremmo mettere presto fine, a cominciare immagino dal professor Diamanti, è proprio quest’estenuante agonia di una Prima Repubblica che credevamo essere scomparsa nel 1994, con la dissoluzione della Democrazia Cristiana e la progressiva evoluzione dei partiti storici, e che invece ci siamo trascinati stancamente dietro per altri diciotto anni: un lasso di tempo sufficiente per consentire al virus della semplificazione insulsa e di un malinteso pragmatismo di produrre danni che, purtroppo, finiremo di pagare forse fra trent’anni, a patto di riuscire ad invertire immediatamente la rotta e di dire addio a tutti gli orrori che hanno segnato questa stagione.

Per comprendere quanto sia triste e vero questo ragionamento, basta scorrere le cronache degli ultimi mesi: la corruzione alle stelle, la politica trascinata nel fango da persone che mai avrebbero dovuto essere candidate, il concetto stesso di democrazia messo continuamente in discussione e vilipeso da chi vorrebbe affidarsi alla scorciatoia del “sacro rogo purificatore” che, naturalmente, oltre a non risolvere alcun problema, potrebbe solo contribuire ad inquinare ancora di più una Nazione già satura di scorie e tossine.
Tuttavia, al termine di quest’esperienza storica, non si può dire grillescamente che siamo tutti, in qualche modo, responsabili di questo scenario da incubo: è doveroso, invece, chiarire che, se oggi siamo ridotti così, la colpa è soprattutto di chi, a suo tempo, ha abbracciato con entusiasmo la nascente filosofia “nuovista” che era, in realtà, vecchissima fin dalle origini e che oggi, purtroppo, è tornata in auge, basandosi come allora sul sostegno di una classe dirigente (e non mi riferisco, evidentemente, solo a quella politica) che di nuovo ha solo il nome dell’etichetta.
Sarò diventato diffidente, ma diciott’anni dopo la famosa “discesa in campo” del Cavaliere dubito che certi commentatori, certi industriali e certi esponenti dei veri “poteri forti” che regnano in questo Paese non sapessero o non fossero in grado di prevedere che un messaggio così privo di una precedente, indispensabile, elaborazione culturale, fondata sullo studio e sull’analisi, avrebbe condotto inesorabilmente alla scomparsa di tutti i princìpi ideali per i quali vale la pena di dedicarsi attivamente alla politica.

Mi spiace, ma non credo alla storiella che l’assalto all’arma bianca nei confronti di qualsiasi forma di passione e di impegno civile, l’incessante denigrazione della scuola pubblica, l’esaltazione dell’egoismo e dell’individualismo siano stati fenomeni casuali. Al tempo stesso, oggi, non credo che la scomparsa dei partiti, dell’idea stessa di partito, possa giovare al Paese; credo, all’opposto, che una buona percentuale di responsabilità dello sfacelo attuale sia dovuto proprio al trionfo dei personalismi, delle sigle senza contenuti, dei format mascherati da progetti per l’avvenire dell’Italia e alla scomparsa di quelli che Enrico Berlinguer chiamava i “pensieri lunghi”: i soli in grado di indurre un esponente politico a ragionare da statista e a piantare l’albero sotto il quale si siederanno i suoi nipoti.

In conclusione, caro professor Diamanti, la stimo da sempre e vorrei con tutto il cuore darle ragione, ma non posso: lei, infatti, è troppo ottimista quando afferma che stiamo andando verso la Terza Repubblica. Con la fine del Celeste Impero formigoniano in Lombardia e le altre vicende che stanno terremotando il nostro panorama politico, al contrario, abbiamo a disposizione l’ultima, valida occasione per seppellire per la seconda (e si spera definitva) volta la Prima Repubblica, per rinfrescare un po’ i nostri vertici istituzionali e dirigenziali (senza “rottamare” nessuno, sia chiaro, ma col dovuto rispetto nei confronti di chi, comunque, in questo mare di vuoto e di miseria ci ha condotto nell’Euro) e per costruire insieme una nuova epoca, nella quale sarà assolutamente indispensabile ripudiare ogni forma di leaderismo e puntare su forme innovative, a cominciare dai social network, di condivisione e di esaltazione della collettività.

Al momento, i sondaggi dicono che questo compito di ricostruzione probabilmente cadrà sulle spalle del Partito Democratico che, cercando di contrastare quei limiti e quei dissidi che pure esistono al suo interno, dovrà assumersi l’onere di restaurare ciò che per decenni è stato minato alla base, organizzando un’autorevole coalizione di centrosinistra e cercando di entrare in sintonia con l’evoluzione sociale e globale in corso, senza far crescere quelle tendenze ad una modernità falsa e ingannevole che, purtroppo, sembrano emergere anche al suo interno.


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