L’Occidente e la primavera araba, fra elezioni e violazioni dei diritti umani

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Due notizie sulla Libia meritano considerazione e qualche osservazione. Il ministro degli esteri Giulio Terzi, da New York, in un articolo apparso sul sito online di Foreign Policy, spiega perché la “Libia è importante” e sollecita l’impegno della comunità internazionale per favorire una “stabilità sostenibile” della nostra ex colonia nordafricana. Da Roma invece, la presidente di Amnesty Italia Christine Weise ha denunciatola “complessa situazione libica” parlando di torture (e almeno dodici morti per le violenze inferte), arresti arbitrari e le carceri piene di prigionieri senza processo, e ha fatto appello affinché l’esecutivo di Tripoli “non ripeta gli stessi errori fatti dal precedente regime”.

Valutazioni e sollecitazioni sono giuste, ovviamente, ma sia Amnesty, prestigiosa organizzazione per il monitoraggio dei diritti umani, che il capo della diplomazia italiana avrebbero dovuto chiamare in causa chi nel mondo ha per decenni sostenuto Gheddafi, il suo regime e tanti regimi simili, come quello di Ben Ali in Tunisia e di Hosni Mubarak in Egitto, pur essendo pienamente consapevoli dei crimini commessi contro i rispettivi popoli.

E’ sufficiente ricordare come il famoso embargo sulla Libia fu imposto soltanto dopo che alcune azioni terroristiche (bombe in una discoteca di Berlino, l’attentato all’aereo di Lockerbie e a un apparecchio francese in Ciad) furono attribuite ai servizi segreti di Gheddafi. Ossia, siamo pronti a isolare e combattere chi ci aggredisce ma siamo tolleranti se quelle violenze restano “a casa” degli altri. La Carta dell’Onu sancisce la non interferenza negli affari interni dei singoli stati aderenti all’organizzazione internazionale ma questo non vuole dire che non possiamo esercitare pressioni – diplomatiche, economiche, sociali – nei confronti di regimi repressivi.

I moti della cosiddetta primavera araba sono il prodotto di una volontà popolare di cambiamento. Se vogliamo sostenere le spinte democratiche e di rinnovamento dobbiamo anche assumerci la responsabilità di essere stati, per troppi anni, complici quando non diretti certamente indiretti delle dittature appena eliminate. E di molti altri ancora in piedi.

Fino alla caduta del muro di Berlino, i nostri leader hanno giustificato la loro politica con la necessità di non spingere paesi amici verso “l’altro blocco”. Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini sono stati massacrati nel nome della realpolitik. Mosca non era, e non è oggi, meno colpevole di Washington. E non lo erano (o sono) i rispettivi alleati.

In questi giorni si vota in Egitto e tra un mese anche i libici andranno alle urne. E’ presto per sapere se saranno compiuti passi nella direzione voluta da chi, spesso pagando con la propria vita, ha rovesciato i tre leader nordafricani. Qualunque sia il risultato del voto, l’Europa come blocco più vicino alla regione turbolenta deve inviare ai nuovi leader segnali inequivocabili. Mai più asseconderemo, con il silenzio, la repressione popolare. Non accetteremo di collaborare – economicamente, militarmente o politicamente – con chi reprime in nome della stabilità o di un’alleanza strategica di dubbia utilità.

Qualcuno dirà che un’opposizione attiva alle dittature – nuove o vecchie e consolidate – potrebbe costarci molto. Che cosa faranno le nostre industrie se non venderanno armi a quella gente sapendo, peraltro, che nel mondo c’è sempre chi è pronto a farlo? Possiamo rischiare di vedere decurtato il nostro interscambio con quei paesi? Preoccupazioni giuste. Ma forse è venuto il momento, in questa fase di rapida globalizzazione, di rimettere sul tavolo valori e interessi per troppi anni trascurati. Altrimenti gli ottomilacinquecento libici illegalmente detenuti e torturati dai successori di Gheddafi, in mancanza di un intervento forte dell’alleanza che ha voluto eliminare il vecchio leader libico, potrebbero considerarci complici dei nuovi boia.

di Eric Salerno
da Il Mondo di Annibale


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