Riforma del mercato del lavoro e oltre (il buio dietro la siepe?)

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di Lidia Undiemi   
Women in the city mi chiede di parlare della riforma del mercato del lavoro del governo Monti in ottica di genere, cioè affrontando i nodi relativi all’occupazione femminile che nel testo del disegno di legge occupa – parole della signora ministro Fornero – un intero capitolo.
Faccio una premessa, fondamentale per capire perché considero tale questione assolutamente fuorviante.

Nella situazione di crisi economica che stiamo vivendo, i disagi che in passato caratterizzavano soprattutto il lavoro delle donne  – ineguaglianza,  discriminazione sul piano retributivo, ecc. – stanno drammaticamente coinvolgendo altre categorie di lavoratori, anche uomini di una certa età con un contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato.
In sostanza, in questo periodo di grave crisi economica si sta creando un appianamento delle  differenze di genere nel mondo del lavoro.

Andare a risolvere questi problemi senza ridefinire il quadro sociale complessivo è praticamente impossibile. Qualsiasi riforma, qualsiasi progetto di legge che miri al miglioramento delle condizioni delle donne non può prescindere dal contesto generale.

Parto da un punto chiaro. Le riforme hanno un senso solo se consentono l’attuazione di un obiettivo politico. Se la proposta di legge parte da un governo “tecnico”, com’è quello attuale, allora dietro lo scopo politico deve esserci un’analisi della realtà che consenta ai cittadini di potere misurare la credibilità, le capacità ed il senso di responsabilità dei rappresentanti isituzionali.
Domanda: quali sono i motivi tecnici che giustificano l’intervento del governo Monti  in materia di licenziamenti illegittimi?

Vado per ordine. I principali problemi dell’Italia sono la corruzione politica, che incide pesantemente nell’inefficienza della pubblica amministrazione, e la speculazione finanziaria. Il governo Monti, piuttosto che agire con forza e determinazione contro questi fenomeni, sta incentivando una “guerra tra poveri” mediante la realizzazione di politiche di austerità, del tutto indifferenti al genere.

Alla base del progetto di riforma del mercato del lavoro c’è infatti l’idea di fondo che la precarietà e le difficoltà di accesso al mondo del lavoro siano principalmente  causate dal fatto che ci sono altri lavoratori “stabili” che invece riescono ad arrivare a fine mese.
E’ chiaro che una motivazione di questo tipo non può reggere  perché non cerca di trovare soluzioni per incrementare i posti di lavoro, ma tende a  generare una specie di riciclo di quelli già esistenti.

Perché il governo non ha ancora reso noto un piano di sviluppo “anticrisi”, e continua a lavorare sulle politiche di austerity attribuendo il peso della crisi ai cittadini?
La carta bianca in qualche modo si dà solo ai poteri bancari. Faccio un esempio: la Banca Centrale Europea (BCE) ha erogato alle banche qualcosa come un trilione di euro al tasso dell’1%. Perché “regalare” denaro alle banche e contemporaneamente rendere praticamente inaccessibile il credito alla piccola e media impresa?

Chi gestisce un’attività economica, chi fa veramente impresa, sa benissimo che il suo “nemico” non è il lavoratore. E’ chiaro che esistono situazioni di conflittualità, ma in questi casi la legge, con le sue imperfezioni, mette a disposizione gli strumenti per poterlo risolvere, tenendo conto della condizione di debolezza contrattuale del lavoratore rispetto al datore di lavoro.
Il vero “ostacolo” per l’imprenditore è la crisi economica e sociale, un fenomeno pilotato dalle logiche speculative e dalla corruzione. Questo squallido intreccio di interessi “paralizza” l’economia reale e obbliga chi fa impresa a chiudere l’attività e a licenziare i dipendenti.

La proposta di riforma del governo Monti è espressione di una visione “limitata” del conflitto sociale, dato che, ancora una volta, viene tirata in ballo la questione della mancanza di flessibilità nella gestione del rapporto di lavoro per giustificare i mali dell’economia. Un approccio non soltanto minimalista ma anche tecnicamente inconsistente visto che gli strumenti di flessibilizzazione del mondo del lavoro introdotti con la legge del 2003, impropriamente definita “Biagi”, si sono rivelati un fallimento, a giudicare dai risultati odierni. Bisognerebbe discutere del perché la flessibilità ha fallito. Manca un’analisi tecnica.

Anche il pensiero di Biagi viene talvolta stravolto. Lo studioso mirava ad un obiettivo che è stato completamente invertito dall’attuale scuola di pensiero che sostiene il “dualismo di sistema”, un modo elegante per sostenere, come già accennato, che le difficoltà lavorative che affliggono milioni di precari italiani dipendono dal raggiunto benessere di quei lavoratori che riescono ancora a guadagnare uno stipendio decente.
Biagi sosteneva che occorreva effettuare una graduale applicazione dei diritti tipici del lavoro “stabile” in favore dei lavori “precari”. La politica, soprattutto in quest’ultimo periodo, tende invece a ridurre i diritti dei lavoratori che stanno un po’ meglio.

E veniamo al tema del “licenziamento.
La questione più discussa dai mezzi di informazione e dalle parti sociali riguarda il tentativo da parte del governo di ridurre la possibilità per il lavoratore di ottenere il reintegro nei casi in cui si accerti giudizialmente l’illegittimità del licenziamento per motivi economici.
La legge attualmente in vigore consente al datore di lavoro di potere licenziare il lavoratore per ragioni inerenti l’attività d’impresa, ad esempio per la realizzazione di una riorganizzazione della forza lavoro. Il giudice non può entrare nel merito delle scelte imprenditoriali, e l’obbligo di reintegro interviene soltanto quando le ragioni che giustificano l’espulsione di fatto non sussistono oppure quando manca il nesso di causalità fra le scelte economiche e il licenziamento. Ciò vale per i datori di lavoro rientranti nel campo di applicazione dell’articolo 18, ossia quelli con più di 15 dipendenti.
La tutela del reintegro non è quindi una forma di flessibilità del lavoro ma una protezione del dipendente contro i licenziamenti non giustificati da reali motivazioni economiche.

Il governo Monti intende limitare le opportunità di reintegro per i lavoratori.
In una prima bozza di riforma i ministri avevano addirittura progettato di togliere ai lavoratori la possibilità di reintegro in tutti i casi di licenziamento economico infondato, lasciando solamente la possibilità di ottenere un indennizzo monetario.
Questo approccio radicale è stato duramente criticato perché espone i lavoratori ad abusi ingiustificati.

“Vediamo di formulare una regolamentazione che eviti gli abusi”, sostiene il primo ministro. Quali abusi? Monti si riferisce ai licenziamenti discriminatori nascosti dietro finti recessi per motivi economici. Le dichiarazioni del professore sono “tecnicamente” irragionevoli, anzitutto perché l’abuso non è necessariamente discriminatorio ma può anche essere economico, nel senso che non si capisce per quale motivo il datore di lavoro debba potere utilizzare in modo strumentale esigenze aziendali inesistenti per cacciare via un dipendente. L’ordinamento italiano tutela già i lavoratori contro le estinzioni dei rapporti di lavoro dettati da fini discriminatori consentendo al lavoratore di potere essere reintegrato, anche al di là dei limiti dimensionali contenuti nell’articolo 18.

Il punto non è dunque evitare gli abusi discriminatori, ma tutelare più in generale i lavoratori contro l’utilizzo abusivo dei licenziamenti economici illegittimi.

Ad un certo punto il governo ci ripensa. Nell’ultima versione della riforma viene sostanzialmente ripristinato l’obbligo di reintegro nei casi di licenziamento per motivi economici rientranti nell’area di applicazione dell’articolo18, ma solo nei casi di “manifesta insussistenza” delle motivazioni che giustificano il licenziamento.
Un concetto non facilmente comprensibile ma che ha un effetto ben definito: l’obbligo di reintegro sussiste soltanto se il giudice – rispetto alle varie ipotesi di licenziamento per motivi economici – stabilisce che la ragione economica è sostanzialmente palesemente infondata.
Nel Sole24Ore di giovedì 5 aprile sono stati riportati alcuni esempi pratici.

Se un’azienda sostiene che non necessita più di un lavoratore  perché decide  di organizzare diversamente la forza lavoro e poi si scopre che l’imprenditore ha fatto ricorso a figure professionali equivalenti, allora il giudice potrebbe ordinare il reintegro del lavoratore nel caso in cui interpreti tale circostanza come “manifesta insussistenza” della motivazione economica.

Diversamente, se il recesso del datore di lavoro è causato da un calo del fatturato, il giudice, dopo aver visionato i libri contabili, potrebbe decidere che il licenziamento è illegittimo ma non manifestamente insussistente, e dunque non stabilire il reintegro ma la corresponsione di un indennizzo da 12 a 24 mensilità.

La domanda che gli italiani dovrebbero porsi è quanto questi casi incidano sul grande problema della crisi economica e sociale che affligge il nostro paese, soprattutto tenendo conto dell’ultima retromarcia sulla materia dei licenziamenti economici.

Ad ogni modo, è assolutamente incomprensibile la linea politica del governo. Come si fa ancora a credere che una delle principali cause della crisi economica sia l’eccesso di tutele in favore dei lavoratori?
“Le imprese non hanno più alibi”, dichiara la ministra del Lavoro in merito alla riforma. Per i nostri rappresentanti la colpa è dei lavoratori oppure degli imprenditori, una scelta molto “politica” e poco “tecnica” che rischia di creare gravi disfunzioni sociali.

Riflessione. Una cosa è certa, la modifica dell’articolo18 ha monopolizzato i mezzi d’informazione di massa. Ci sono altri interventi che meritano attenzione ma di cui non si parla, come la ratifica di due trattati europei, quello sul meccanismo europeo di stabilità (ESM) e quello sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria.

Il trattato ESM, a quanto pare sconosciuto alla classe politica italiana, prevede, come ho ampiamente argomentato in diverse occasioni,  l’attribuzione del fondo “salva-stati” ad una organizzazione finanziaria intergovernativa che, fra immunità, condoni ed altri privilegi, si propone si concedere soldi agli stati in difficoltà in cambio della possibilità di potere incidere sulle scelte di politica interna da far gravare sulle spalle di intere popolazioni. Rischiamo di avere all’orizzonte un’ondata di austerità imposte da un’istituzione non democraticamente eletta, che gode inoltre della “inviolabilità” dei documenti.

E’ di questo che dovremmo discutere. Non c’è questione di genere, uomini e donne, potremmo essere tutti e tutte fregati, dato che la politica tende a legittimare logiche finanziarie a colpi di politiche di austerity (riduzione progressiva dei diritti dei cittadini, aumento delle tasse, ecc).
Un serio intervento politico contro la crisi non può prescindere dalla lotta alla speculazione finanziaria e alla corruzione politica. Le soluzioni esistono, parliamone.


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