Centenario Felliniano. Federico Fellini diventa fanese

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Sosteneva Jorge Luis Borges che ogni grande artista crea i propri precursori, vale a dire gli antesignani a cui non dedicheremmo alcuna attenzione se non fosse per lui. È verissimo, e questo accade anche per i luoghi, persino immaginari, ai quali il grande artista è spesso capace di donare una visibilità insospettabile. Il Borgo di Rimini, Via Veneto, il Raccordo anulare di Roma, la laguna di Venezia, sono luoghi ‘inventati’ da Fellini. E il Centenario Felliniano sta scatenando una salutare febbre di identificazioni, al punto che è uscito da poco un libro interamente dedicato ai rapporti tra Fellini e la piccola città di Fano; praticamente inesistenti, ma non per l’autrice, ovviamente fanese, che scovati solidi puntelli ci costruisce sopra, anche filologicamente, un’intera storia misconosciuta. Il volume (aras edizioni) si intitola Fano Fellini, e nell’occhiello si recita: La città della Fortuna nel cinema del grande regista – Prefazione di Gian Luca Farinelli direttore della Cineteca di Bologna, intellettuale spregiudicato e complice di ogni impresa felliniana.

La scrittrice si chiama Agnese Giacomoni, professoressa di latino e greco al liceo classico, letteralmente invaghita del regista riminese che, se fosse per lei, avrebbe già promosso d’imperio a concittadino, intimamente persuasa, sebbene non osi confessarlo apertamente, che alla base ci sia un errore anagrafico, e che Fellini in realtà sia nato a Fano. Esagero un po’ ma solo per simpatia; intanto perché l’estrosa Giacomoni è persona seria, assuefatta a studiare, e ha appreso quasi tutto ciò che c’è da sapere su Fellini e i suoi film; inoltre perché è ferrata, puntigliosa, acquisisce quel che non sa con fiuto da segugio e l’inflessibilità dell’ispettore Javert, perseguendo il suo scopo oltre ogni ostacolo, anzi oltre ogni ragionevole dubbio.

Ora però è opportuno fare un passo indietro e cercare di chiarire cosa c’entra Fano con Fellini. L’intera vicenda, inevitabilmente visionaria, prende l’avvio da una delle tante incaute affermazioni di Federico, il quale per non annoiarsi troppo con le domande sempre uguali dei giornalisti, congegnava volentieri le risposte più stravaganti e, da buon bugiardo, le porgeva così cariche di umori, così ben dettagliate, da renderle più vere del vero. Un giorno si è inventato di essere stato rinchiuso in collegio a Fano, verso gli otto, nove anni, presso l’Istituto S. Arcangelo dei Padri Carissimi, i famosi preti con la pettorina bianca sulla tonaca nera, abito talare riadattato in seguito con sottile malizia alle forme conturbanti di Anita Ekberg.

L’affermazione era stata smentita da sua madre stessa, la signora Ida, con romanesca sbrigatività: “Ma quando mai!” Federico non controbatteva, ma commentava sorridendo: “Eppure a me sembra di esserci stato”. Lasciandoci intuire che verità e finzione avevano ben poca distinzione nella sua mente; ciò che valeva non era la banale cronaca bensì la credibilità artistica della narrazione, la ‘sua’ verità. Restando invece alla cronaca è dimostrato dai registri della scuola che in quel collegio sia stato accolto Riccardo, il fratello minore di un anno, e che Federico, verosimilmente, si sia impossessato dei suoi ricordi. Ma è anche supponibile che durante quell’unico anno scolastico il futuro regista si sia recato insieme ai genitori a far visita al fratello collegiale e, da avida spugna qual era, gli fossero bastate quelle rapide incursioni negli ambienti dell’istituto religioso per memorizzare all’istante corridoi, camerate, prefetti sadici, inginocchiamento sui ceci, ricavandone un’intera epopea e arricchendo ogni episodio a suo piacimento; persino la madre addolorata e piangente per gli indecenti peccati carnali di quel figlio discolo: “Che vergogna… che vergogna…”

 

E qui precipitiamo nell’abisso della colpa, ovverosia l’incontro con la Saraghina, in spiaggia, insieme ad altri piccoli convittori ansiosi di scoprire ciò che la donna nascondeva sotto la gonna “cenciosa e bucherellata”. L’esibizione avviene in cambio di un compenso sempre diverso nei molteplici resoconti: pochi soldi in monetine, una manciata di caldarroste, i bottoni dorati della divisa, le candele rubate in chiesa, una generica colletta ottenuta dalla rottura del salvadanaio, e persino la vendita di qualche testo scolastico, in onore di Pinocchio. Quale fosse il vero prezzo per le esibizioni sconce, o le altre prestazioni offerte ai pescatori dalla femmina poderosa, nessuno lo sa. Il regista fa capire che si accontentava del rimasuglio di pesce rimasto sul fondo della barca, la saraghina appunto, che gli uomini le portavano in un cartoccio in cambio dei suoi favori. Ed ecco così spiegato il soprannome ittico.

Ma chi era la Saraghina? E qui Fellini si esercita nei volteggi acrobatici del suo miglior repertorio: una donna cetaceo, un mostro marino, un drago, una sirena risalita dagli abissi. Una volta riferisce di capelli attorcigliati come alghe, un’altra di stelle marine impigliate nella chioma. Ricorda che abitava dentro un bunker, quei gusci di cemento a feritoia sistemati dai tedeschi lungo il litorale per mitragliare gli sbarchi alleati; o anche “un fortino diroccato della grande guerra, una specie di tana che sapeva di catrame, di legno marcio, di pesce”. E come vestiva la Saraghina? “Indossava una maglia da marinaio a righe blu e nere, e una sottana di cenci”; esattamente come ci appare in 8 ½, con una blusa logora e scollata sopra una gonna lacera al ginocchio.

Il bunker si trovava proprio sulla spiaggia di Fano oppure era a Rimini, come si asserisce in altre versioni dell’avventura? E come mai questa sovrapposizione tra le due cittadine adriatiche?

 

Qui ci soccorre la storia familiare. La scrittrice filologa sostiene che il padre di Federico, Urbano, viaggiatore di commercio di generi alimentari, copriva un’area che dalla Romagna si spingeva fino al nord delle Marche; era affabile, amicone, spiritoso, buon parlatore, scherzava con tutti e si rendeva simpatico all’istante. È probabile che Riccardo sia finito nel collegio di Fano su suggerimento di qualche occasionale compagno di treno. Ma c’era un’altra ragione, spiega la Giacomoni, per la quale Urbano bazzicava Fano con i suoi affari, perché era libero di frequentare il postribolo senza destare sospetti o sollevare pettegolezzi, inevitabili nel suo piccolo borgo. Onesta preoccupazione di un padre di famiglia che deve salvaguardare la facciata. Ci sono testimoni che lo confermano, ma gli eredi Fellini, nella figura di Francesca, unica nipote rimasta, non lo ammettono e minacciano querele: guai a chi osa insinuare che l’avo potesse avere certe turpi abitudini! Non era mica un reato; al tempo del fascismo, e per vari anni anche del dopoguerra repubblicano, le case di tolleranza erano legali, controllate dallo Stato. E poi di cosa vogliamo scandalizzarci, è proprio il regista a confidarci che, grazie a certe umanissime debolezze era riuscito a riappropriarsi della figura paterna, restata sempre fatalmente estranea. A casa non c’era quasi mai, tornava dai suoi viaggi allegro e con le braccia ricolme di doni, ma avvolto da un alone di infedeltà che faceva piangere la madre, Ida; la quale per lui aveva abbandonato Roma e accettato la ‘fuitina’, riparando dai suoceri di Gambettola: la famosa casa colonica della nonna Franzscheina, dove prende origine la stirpe dei Fellini.

Federico, con quel tocco di poesia eretica di cui era maestro, riferisce che al funerale di Urbano aveva notato alcune signore in gramaglie e il fazzoletto agli occhi, che ne piangevano la dipartita: “Erano proprio il tipo di donna che piaceva anche a me”.  Scoprire nel padre le proprie inclinazioni, che tuffo al cuore! Ne riviviamo l’ambiguo sentimento ne La Dolce Vita: l’improvvisata che il papà fa a Marcello piombando in un caffè di Via Veneto, l’allegra serata con le ballerine della boîte, e infine la tentata avventura con Fanny, dalle gambe bellissime. Forse la sequenza più toccante del film: un padre e un figlio che si riconoscono in un soprassalto, ma solo per allontanarsi subito dopo, senza rimedio.

“Ci siamo parlati così poco…” Mormora Guido, il protagonista di 8 ½, aiutando l’anziano genitore a scendere lentamente nella tomba.

 

Su questo distacco definitivo, Fellini avrebbe voluto realizzare, ancor prima de La dolce vita, un film di cui aveva già scritto la sceneggiatura: In viaggio con Anita. Narrava del protagonista che ricevuta la notizia dell’improvviso aggravamento del padre malato di cuore, ne approfitta per partire in fretta da Roma portando in auto con sé l’amante. Ma durante il viaggio alla volta di Rimini (o di Fano?) tergiversa, si attarda con la seducente compagna, arriva al capezzale del padre quando questi è già spirato. Sempre in ritardo sugli affetti: già, non è così per quasi tutti noi?

La Giacomoni assicura, citando le fonti, che Federico aveva pensato di girare il film a Fano, una Rimini inventata e quindi più vera, com’era già avvenuto con Viterbo, Civita di Bagnoregio, Ostia, Firenze, e persino Nettuno, dove il Casino in stile liberty era così simile al Grand Hotel di Amarcord!

Fellini ricreava per creare, era questo il suo marchio, il suo stemma araldico: «L’unico vero realista è il visionario». Nel cinema, ma in tutte le arti in generale, si persegue la verità attraverso la finzione; quella è l’unica strada percorribile, altro che documentari fasulli e sbandierati cinema-verità! L’arte è un divino imbroglio, è puro illusionismo.

 

L’autrice di Fano, implacabile, va a rovistare dovunque per sostenere la sua tesi, e da ogni virgola costruisce una frase, da ogni parola un poema. A volte insiste con testarda, persino irritante pedanteria, altre volte con autentica, toccante ispirazione. Rintraccia perfino un frammento di cronaca fanese dal quale Fellini avrebbe tratto l’episodio del Cavalier Biondi, il personaggio che in Amarcord si presenta a casa di Aurelio, all’ora di pranzo, per pretendere il risarcimento di un cappello nuovo. Quel mascalzone di Titta gliel’aveva rovinato pisciandogli in testa dalla galleria del cinema Fulgor: apriti cielo, una tragedia domestica di grottesco, esilarante, tenerissimo ‘verismo’ in stile Tonino Guerra (o Fabio Tombari?), con il nonno impassibile che molla peti nel tinello adiacente alla cucina.

Non ci si stanca di procedere a passo di carica dietro la gioiosa scrittrice china sulle tracce di tutte le possibili assonanze, fantasie, vaneggiamenti che avrebbero legato Fellini alla piccola Fano. Persino il proprietario del Fulgor, con il trench sulle spalle e il cappello alle ventitré, così simile nel ricordo di Fellini all’attore americano Ronald Colman, secondo l’agguerrita professoressa con le fotografie alla mano, era plausibilmente il proprietario e gestore del Cinema Corso di Fano. E la Gradisca, anche lei di Fano? Ma questa è autentica perfidia, un assalto alla diligenza per espropriare il Borgo della sua dea maggiore!

In ogni caso le pagine più ispirate, vorrei dire le più vere, le più narrativamente poetiche, sono quelle che la scrittrice dedica all’immagine della Saraghina, dalla quale è irrimediabilmente ammaliata, soggiogata. A lei consacra un capitolo dovizioso e scintillante per le curiosità che lo intessono: la teoria psicanalitica dell’iniziazione, le citazioni omeriche, la similitudine con il viaggio di Odisseo che incontra Nausicaa, sono un prodigioso esercizio di virtuosismo letterario.

Andiamo allora al cuore (si fa per dire) della vicenda: cosa mostrava la Saraghina ancheggiando sulle note della rumba, quando rialzava la gonna sul sederone e poi si girava verso i ragazzini in trepidante, attonita attesa?  “Aveva un gatto fra le cosce”, rievocava il regista avendo ancora davanti agli occhi l’immagine di quella pelliccia buia, misteriosa, attraente e terrificante. Precisando però: “Non mi sgomentò affatto, benché dopo, per un quarto d’ora almeno, non riuscissi a dire una sola parola ai miei compagni”.  Muto, afasico, come mesmerizzato.

Aveva incontrato in carne e ossa il personaggio che chissà da quanto tempo ricacciava nella nicchia segreta dei sogni proibiti, e alla quale in futuro avrebbe concesso di troneggiare liberamente, sontuosamente da uno schermo cinematografico tutto per lei.

“Dal giorno in cui sono nato fino al mio ingresso a Cinecittà, la mia vita mi sembra sia stata vissuta da qualcun altro; da uno che, solo a tratti e quando meno me lo aspetto, decide all’improvviso di parteciparmi qualche frammento dei suoi ricordi. Debbo quindi ammettere che i miei film sulla memoria raccontano ricordi completamente inventati. E del resto che differenza fa? Ecco, da bambino costruivo da solo dei burattini. Prima li disegnavo sul cartone, poi li ritagliavo, infine mettevo insieme le teste con la creta e con l’ovatta imbevuta di colla. Insomma, se ci ripenso, mi pare che per me la fantasia è sempre stata legata al lavoro artigianale. Non mi sono mai appassionato ad altri giochi all’infuori dei burattini, dei colori e delle costruzioni in cartoncino, quei disegni in pianta e prospettiva che si ritagliavano e si incollavano. Mi piaceva anche stare chiuso nel gabinetto per ore e ore, mettermi la cipria in faccia e mascherarmi con baffi di stoppa, barbe, sopracciglioni mefistofelici, e basettoni disegnati col sughero bruciato”.

 

Tutti, ma proprio tutti i film di Fellini hanno una storia che inizia da molto lontano, e fanno parte di un unico ordito; sono le stelle di una galassia mentale che si raccolgono di volta in volta a formare un disegno riconoscibile, come le figure della volta celeste.


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